Applicazione della carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea nella legislazione e nell’elaborazione delle politiche a livello nazionale.
La presente relazione mira a promuovere una migliore comprensione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea anche quando si applica nella legislazione e nell’elaborazione delle politiche nazionali.
Dal 2000 l’Unione Europea si è dotata di una propria Carta dei diritti, divenuta giuridicamente vincolante il 1° dicembre 2009 (data dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona) ed avente lo stesso valore giuridico dei trattati dell’UE: la Carta dei diritti fondamentali.
La Carta si presenta come una sorta di catalogo moderno dei diritti umani, contenente dunque molti diritti non reperibili nelle carte dei diritti già consolidate ed è sempre vincolante per l’UE e per gli Stati membri solo quando “attuano il diritto dell’UE”. Contiene 50 diritti e principi fondamentali ed è composta da sette capi: Dignità (5 articoli), Libertà (14 articoli), Uguaglianza (7 articoli), Solidarietà (12 articoli), Cittadinanza (8 articoli), Giustizia (4 articoli) e Disposizioni generali (4 articoli); La disposizione pertinente del trattato è l’art.6, par.1, TUE, il quale enuncia che “L’Unione riconosce i diritti, le libertà e i principi enunciati nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea […] che hanno lo stesso valore giuridico dei trattati”.
La Carta dei diritti fondamentali ed i principi generali (non scritti) del diritto rappresentano, per il diritto dell’Unione Europea, le due principali fonti di diritti fondamentali. Entrambe le fonti costituiscono il diritto primario dell’UE e si sovrappongono, entrando in gioco esclusivamente nell’ambito di applicazione del diritto dell’UE (hanno dunque lo stesso ambito di applicazione).
Per quel che concerne i secondi, si tratta di principi non scritti individuati dalla CGUE, esistenti dalla fine degli anni 60 che possono, quali fonti di diritto primario dell’UE, essere utilizzati “per determinare se un atto di diritto derivato è valido o se è applicabile una disposizione del diritto nazionale”. La disposizione pertinente è l’art.6, par.3, TUE;
L’UE riconosce la massima importanza degli attori nazionali ai fini dell’applicazione della Carta; è, difatti, il Parlamento Europeo ad aver sottolineato che “le autorità nazionali (autorità giudiziarie, organismi preposti all’applicazione della legge e amministrazioni) sono attori fondamentali per dare effetto concreto ai diritti e alle libertà sanciti dalla Carta”. A tal proposito si cita l’art.51 della Carta, il quale ammette che “Le disposizioni della presente Carta si applicano alle istituzioni, agli organismi, agli uffici e alle agenzie dell’Unione […] come pure agli Stati membri esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione”.
L’articolo segue una logica, in quanto il punto di partenza del sistema dell’UE di protezione dei diritti fondamentali è il dovere dell’Unione di rispettare i diritti fondamentali di cui all’art.6 TUE. Di conseguenza, poiché l’attuazione e l’applicazione dei diritti dell’Unione interviene in larga misura a livello nazionale, necessariamente il dovere dell’Unione si estende agli atti adottati dalle autorità nazionali, qualora sia possibile affermare che tali atti contribuiscono all’attuazione del diritto dell’Unione. Da qui si ricava come l’obbligo degli Stati membri di rispettare la Carta costituisce il necessario corollario degli obblighi dell’UE in materia di diritti fondamentali.
Da non confondere con la distinzione tra le due fonti dei diritti fondamentali dell’UE (ossia la Carta e i principi fondamentali del diritto dell’UE) è la distinzione operata dall’art.52, par.5, tra “diritti” e “principi”. Trattandosi di due tipi di disposizioni della Carta, Entrambi sono vincolanti; tuttavia, i diritti della Carta devono essere “rispettati”, mentre i principi della Carta devono essere “osservati”. Inoltre, mentre i diritti possono essere invocati direttamente dai singoli dinanzi ai tribunali nazionali, lo stesso non vale per i principi. Questi ultimi possono essere attuati da atti legislativi ed esecutivi dell’Unione e da atti degli Stati membri (quando attuano il diritto dell’Unione) e divengono “giuridicamente riconoscibili” (ossia invocabili dinanzi ad un giudice nazionale) solo nell’interpretazione degli atti di esecuzione e per la valutazione della loro validità rispetto alle esigenze della Carta.
Sempre l’art.52, al par.3, ci mostra il rapporto tra la Carta e la CEDU (Convenzione Europea dei diritti dell’uomo), intendendo assicurare la necessaria coerenza tra la Carta e la CEDU affermando la regola secondo cui, qualora i diritti della presente Carta corrispondano ai diritti garantiti anche dalla CEDU, il loro significato e la loro portata, comprese le limitazioni ammesse, sono identici a quelli della CEDU. Ne consegue in particolare che il legislatore, nel fissare le suddette limitazioni, deve rispettare gli standard stabiliti dal regime particolareggiato delle limitazioni previsto nella CEDU senza che ciò pregiudichi l’autonomia del diritto dell’Unione e della CGUE. La protezione accordata dalla Carta non può comunque in nessun caso situarsi ad un livello inferiore a quello garantito dalla CEDU.
La Carta lascia impregiudicata la possibilità degli Stati membri di ricorrere all’articolo 15 della CEDU, che permette di derogare ai diritti sanciti dalla Convenzione in caso di guerra o in caso di altro pericolo pubblico che minacci la vita della Nazione qualora agiscano nell’ambito della difesa in caso di guerra o nell’ambito del mantenimento dell’ordine pubblico.
Le autorità e i tribunali nazionali restano liberi di applicare le norme nazionali di protezione dei diritti fondamentali, applicando il livello di protezione della Carta sempre come norma minima per le misure nazionali di attuazione del diritto dell’UE. Pertanto, quando un atto giuridico dell’UE richiede misure nazionali di attuazione, le autorità e i tribunali nazionali restano liberi di applicare norme nazionali più rigorose in materia di tutela dei diritti fondamentali. Tuttavia, secondo la giurisprudenza della CGUE, ciò si applica solo a condizione che il livello di protezione previsto dalla Carta, il primato, l’unità e l’efficacia del diritto dell’unione non siano compromessi. (art.52, par.4 della Carta).
Sempre per quanto riguarda il diritto nazionale, l’effetto della Carta su di esso non dipende dal diritto costituzionale degli Stati membri, bensì deriva dal diritto dell’UE e si basa quindi sui principi dell’effetto diretto e della supremazia. Quando le disposizioni della Carta sono sufficientemente precise ed incondizionate, possono avere un effetto direttosul diritto nazionale: ciò implica che le norme nazionali in conflitto con la Carta sono rese inapplicabili. Tale effetto diretto consente ai singoli individui di invocare la Carta nei procedimenti dinanzi ai giudici nazionali e può, inoltre, portare anche alla creazione di diritti che non sono disponibili nel diritto nazionale. Al contrario, invece, qualora sia stata accertata una discriminazione contraria al diritto dell’Unione e non siano state adottate misure ai fini del ripristino della parità di trattamento, il giudice nazionale deve disapplicare la disposizione discriminatoria del diritto nazionale: a tal fine, non solo non deve chiedere o attendere la sua previa rimozione da parte del legislatore ma è tenuto ad applicare ai membri del gruppo svantaggiato lo stesso regime di cui godono le persone appartenenti al gruppo privilegiato.
Ad ogni modo, in determinate circostanze, i diritti della Carta possono anche generare effetti orizzontali, ossia instaurando obblighi tra privati. Prendendo la causa Kucukdeveci come riferimento, la CGUE ha stabilito che i giudici nazionali dovrebbero disapplicare qualsiasi disposizione della legislazione nazionale contraria al principio generale di non discriminazione basata sull’età. Detta causa sorta in Germania riguardava una controversia tra un lavoratore dipendente e un datore di lavoro privato in merito al termine di preavviso per il licenziamento. Tale periodo era stato calcolato sulla base dell’anzianità di servizio del dipendente. Tuttavia, secondo il diritto tedesco, non sono stati presi in considerazione i periodi di lavoro precedenti il compimento del venticinquesimo anno di età del lavoratore facendo ritenere dalla CGUE questa eccezione come contraria al principio di non discriminazione in base all’età. Di conseguenza, il giudice nazionale ha dovuto disapplicare tale eccezione.
In altre parole, quando i diritti della Carta sono direttamente applicabili, essa può essere applicata nelle controversie tra privati (effetto diretto orizzontale). Di conseguenza, proprio in tali tipi di controversie, il giudice nazionale sarebbe tenuto a garantire, nell’ambito della sua giurisdizione, la tutela giurisdizionale dei singoli derivante dagli articoli 21 (non discriminazione) e 47 (diritto a un ricorso effettivo e a un giudice imparziale) della Carta, nonché a garantire la piena efficacia di tali articoli disapplicando, se necessario, qualsiasi disposizione contraria al diritto nazionale.
Da evidenziare è la responsabilità degli Stati membri dei danni causati ai singoli a seguito di violazioni della Carta. Essi sono tenuti a risarcire i danni causati ove:
- lo stato di diritto violato era finalizzato a conferire diritti ai singoli;
- la violazione sia sufficientemente grave (e, dunque, lo Stato membro interessato ha manifestamente superato i limiti del suo potere discrezionale);
- tra la violazione dell’obbligo a carico dello Stato e il danno subito dai soggetti lesi esista un nesso di causalità diretto.
Rilevante è, senza dubbio, la possibilità dei giudici nazionali di sottoporre questioni pregiudiziali alla CGUE. La possibilità o l’obbligo di adire la Corte di giustizia si basano sulla cooperazione instaurata al fine di garantire la corretta applicazione e l’interpretazione uniforme del diritto dell’UE, compresa la Carta dei diritti fondamentali. Spetta al giudice nazionale decidere di deferire una causa alla CGUE: una domanda di pronuncia pregiudiziale offre spesso una tutela giuridica più rapida e maggiore rispetto a una denuncia alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Inoltre, la CGUE ha competenza esclusiva per dichiarare invalidi gli atti dell’UE; pertanto, se e quando un giudice nazionale risulti dubbioso sulla validità di un atto dell’Unione, deve adire la Corte di Giustizia, indicando i motivi per i quali ritiene che l’atto sia invalido. –> quando sussiste l’obbligo di adire la CGUE? Le giurisdizioni nazionali le cui decisioni non possono essere impugnate in base al diritto nazionale hanno l’obbligo giuridico di sottoporre alla CGUE una questione di diritto dell’Unione Europea sollevata dinanzi ad esse. Ovviamente, ciò non vale nel caso in cui il giudice stabilisca che la questione sia irrilevante ovvero che “la disposizione è già stata interpretata dalla Corte” o che la corretta applicazione della disposizione è “così ovvia da non lasciare spazio ad alcun dubbio ragionevole”.
Detto ciò, si può rilevare che mentre una pronuncia pregiudiziale ai sensi del diritto dell’UE consente ai tribunali nazionali l’accesso diretto alla CGUE, la situazione si presenta (perlomeno attualmente) diversa per la CEDU. Invero, affinché una domanda possa essere presentata dinanzi a quest’ultima, devono essere esauriti i mezzi di ricorso disponibili presso i tribunali nazionali e devono essere rispettate altre condizioni di ammissibilità. Tali ostacoli, invece, non esistono nei procedimenti di rinvio pregiudiziale dinanzi alla CGUE, ed ecco perché la stessa offre anche un processo molto più veloce. Si noti, tuttavia, che il 1° ottobre 2018 è entrato in vigore il protocollo n. 16 della CEDU, con cui si consente alle più alte giurisdizioni nazionali di chiedere alla stessa pareri consultivi “su questioni di principio relative all’interpretazione o all’applicazione dei diritti e delle libertà definiti nella convenzione o nei suoi protocolli” nelle cause pendenti dinanzi ad esse. In tal senso, detto nuovo procedimento somiglia in una certa misura alla pronuncia pregiudiziale della CGUE.
Ma come verificare l’applicabilità della Carta per gli Stati membri? Il già citato articolo 51 è il punto di partenza ai fini di questa valutazione. Invero, per evitare qualsiasi violazione del diritto dell’UE, i processi decisionali a livello nazionale, ed in particolare le procedure legislative, dovrebbero sistematicamente valutare l’applicazione o meno della Carta dei diritti fondamentali dell’UE, valutazione che dovrebbe essere effettuata già nelle primissime fasi preparatorie di qualsiasi iniziativa legislativa o politica prevista. Il requisito necessario affinché la Carta risulti applicabile ad un atto nazionale è la qualificazione dello stesso come atto di “attuazione del diritto dell’Unione” ai sensi dell’articolo 51, par. 1, della Carta ovvero rientrare nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione. Tale valutazione rappresenta una sorta di regolare “screening ai sensi dell’articolo 51” il quale crea visibilità, consapevolezza e conoscenza dell’applicabilità della Carta.
Invero, la Carta è sempre vincolante per gli organi dell’Unione, anche “quando agiscono al di fuori del quadro giuridico dell’UE”, ma per gli Stati membri solo quando “attuano il diritto dell’Unione”. Secondo la giurisprudenza della CGUE, l’espressione “attuazione del diritto dell’Unione” ha una portata ampia comprendente l’intera esecuzione ed applicazione del diritto dell’Unione da parte degli Stati membri.
Nel caso in cui non sia possibile individuare alcun legame con il diritto dell’Unione, lo Stato membro non sarà soggetto ad alcun obbligo in materia di diritti fondamentali dell’Unione europea e dunque, in altre parole, la Carta non si applica.
D’altro canto, l’esistenza di un qualsiasi legame con il diritto dell’Unione non necessariamente comporta l’applicazione dei diritti fondamentali, in quanto non tutti i legami con il diritto dell’Unione sono sufficienti a far scattare l’applicazione degli stessi. Dunque, il legame con il diritto dell’Unione dovrebbe essere sufficientemente concreto da poter essere considerato come “in attuazione del diritto dell’Unione”. Un legame si reputa sufficientemente concreto se gli Stati membri agiscono come agenti per l’UE ovvero se devono fare affidamento su un qualche tipo di autorizzazione ai sensi del diritto dell’UE.
In particolare, l’espressione “agente per l’UE” riguarda l’esecuzione o il recepimento di atti giuridici adottati da istituzioni, organi, uffici o agenzie dell’Unione. Potrebbe riguardare atti quali regolamenti, direttive, accordi esterni (come accordi internazionali conclusi dall’UE) o disposizioni specifiche dei trattati. Il principio dell’attuazione del diritto dell’Unione in qualità di agente può presentarsi in varie situazioni:
- Recepimento nel diritto nazionale degli atti giuridici dell’Unione: frequente situazione in cui gli atti nazionali sono destinati a recepire specifici requisiti obbligatori in virtù di atti giuridici dell’Unione (ad esempio attraverso l’attuazione di una direttiva);
- Atti nazionali adottati sulla base dei poteri conferiti dal diritto dell’Unione: in questo caso, uno Stato membro si avvale di poteri discrezionali in virtù del diritto dell’Unione (un esempio possono essere le decisioni prese dagli Stati membri sulla base del potere discrezionale o di un’eccezione a loro disposizione in virtù di un atto giuridico dell’Unione).
- Atti nazionali che comportano mezzi di ricorso, sanzioni o misure di esecuzione che possono essere adottati in relazione a un atto giuridico dell’Unione o una disposizione del trattato: sulla base del dovere di leale cooperazione di cui all’articolo 4, par. 3, TUE e in assenza di norme procedurali dell’Unione, gli Stati membri sono tenuti a garantire l’efficacia e la corretta attuazione dei diritti e dei doveri dell’UE ai sensi del diritto dell’Unione.
- Atti nazionali che implicano concetti giuridici menzionati in un atto giuridico dell’Unione;
- Atti nazionali che rientrano nell’ambito di applicazione esatto della legislazione dell’Unione senza una legislazione di attuazione esplicita: situazione che riguarda essenzialmente l’omissione dell’attuazione.
Gli atti giuridicamente vincolanti dell’Unione possono essere:
- regolamenti
- direttive
- accordi esterni conclusi dall’Unione
- disposizioni specifiche del trattato.
Quando uno Stato membro deve basarsi sulla autorizzazione ai sensi del diritto dell’UE? Questa forma di “attuazione del diritto dell’Unione” riguarda gli atti e misure nazionali che rientrano in un divieto dell’UE. Per giustificarli, gli Stati membri devono ricorrere alle eccezioni (giustificazioni, deroghe) previste dal diritto dell’Unione. In tali situazioni il diritto dell’Unione autorizza l’esistenza di tali atti nazionali al fine di evitare la violazione dei diritti fondamentali dell’UE.
La base di questa forma di attuazione sta nel fatto che il diritto dell’Unione non può autorizzare gli Stati membri ad adottare misure che violino la Carta.
Tale situazione si concretizza quando le misure nazionali:
- costituiscono una discriminazione basata sulla nazionalità ai sensi dell’art.18 del TFUE;
- sono considerate restrizioni alla libera circolazione dei cittadini dell’Unione (art. 21 del del TFUE), delle persone (artt. 45 e 49 del TFUE), dei servizi (art. 56 del TFUE) o dei capitali (art. 63 del TFUE) o come restrizioni quantitative all’importazione e all’esportazione (artt. 34 e 35 del TFUE);
- hanno l’effetto (potenziale) di privare i cittadini del reale godimento del contenuto dei diritti loro conferiti in virtù del loro status di cittadini dell’Unione (art.20 del TFUE).
Ad esempio, una restrizione alla libera circolazione è giustificabile se necessaria per perseguire uno scopo legittimo nell’interesse pubblico. Dunque l’art. 20 del TFUE prevede la possibilità di giustificare una deroga.
Invero, gli Stati membri possono avvalersi di un’eccezione legata, in particolare, al rispetto delle esigenze di ordine pubblico e alla salvaguardia della pubblica sicurezza.
Ipotesi di recepimento da parte della legislazione nazionale esistente.
Talvolta vi è la possibilità di garantire che il diritto nazionale sia coerente con l’atto dell’Unione in questione sulla base di disposizioni nazionali preesistenti. In tale situazione non è necessario creare delle nuove disposizioni nazionalispecificamente destinate ad attuare l’atto giuridico dell’Unione, in quanto questo tipo di disposizioni nazionali preesistenti , proprio perché garantiscono tale coerenza del diritto nazionale con l’atto giuridico dell’Unione in questione, possono essere qualificate come “in attuazione del diritto dell’Unione”.
Dunque, molto spesso, gli atti giuridici dell’UE lasciano un margine di discrezionalità agli Stati membri, soprattutto nel caso delle direttive, che impongono agli Stati membri di raggiungere un determinato risultato senza dettare i mezzi per raggiungerlo. L’esercizio di tale potere discrezionale da parte degli Stati membri si qualifica in linea di principio come “in attuazione del diritto dell’Unione”, indipendentemente dal fatto che si tratti di un esercizio obbligatorio ovvero facoltativo dei poteri discrezionali.
Tuttavia, vi sono eccezioni in cui l’uso del potere discrezionale non è considerato un’attuazione del diritto dell’UE: si tratta di quei casi in cui gli atti giuridici dell’UE consentono agli Stati membri di andare oltre i requisiti minimi dell’Unione adottando delle disposizioni nazionali più favorevoli o più rigorose. Di conseguenza, l’esercizio di tale competenza da parte degli Stati membri non si qualifica come “in attuazione del diritto dell’Unione” se l’opzione di una legislazione più favorevole comporta il mero riconoscimento del potere di cui gli Stati membri già dispongono in virtù del diritto nazionale.
Un esempio è il congedo annuale retribuito.
Una direttiva dell’Unione sull’organizzazione dell’orario di lavoro stabilisce che gli Stati membri devono adottare le misure necessarie per garantire che ogni lavoratore abbia il diritto a un congedo annuale retribuito di almeno quattro settimane. In questo esempio, il recepimento nel diritto nazionale del diritto al congedo annuale retribuito di quattro settimane è considerato “in attuazione del diritto dell’Unione”. Inoltre, le condizioni per il diritto e la concessione di tale congedo sono “l’attuazione del diritto dell’Unione” anche se la direttiva UE lascia tali condizioni alla discrezionalità degli Stati membri. Nell’esercizio di tale discrezionalità, ad ogni modo, gli Stati membri devono rispettare i diritti fondamentali dell’UE.
Si rileva che se uno Stato membro decidesse di concedere un congedo annuale di cinque settimane, i diritti fondamentali dell’Unione Europea si applicherebbero esclusivamente all’attuazione nazionale del minimo previsto dall’Unione di quattro settimane, e non anche alla settimana supplementare prevista dal legislatore nazionale. Di conseguenza, la quinta settimana non si qualificherebbe come “attuazione del diritto dell’Unione”.
Ciononostante, l’atto giuridico dell’UE in questione potrebbe prevedere esplicitamente che tale sovraregolamentazione nazionale (c.d. Gold-plating) rientri comunque nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione e debba quindi rispettare la Carta. È chiaro che in tale situazione si applicherà il diritto dell’Unione, compresi i diritti fondamentali.
Facendo un esempio di sovraregolamentazione che si qualifica come “in attuazione del diritto dell’Unione”, l’articolo 4, par. 1 della direttiva sui servizi di media audiovisivi prevede che “gli Stati membri conservano la facoltà di richiedere ai fornitori di servizi di media soggetti alla loro giurisdizione di rispettare norme più particolareggiate o più rigorose nei settori coordinati della presente direttiva, purché tali norme siano conformi al diritto dell’Unione”.
In tal caso dalla stessa direttiva si rileva che le misure nazionali di protezione rafforzata rientrano nell’ambito di applicazione del diritto UE. Di conseguenza, la Carta si applica non solo ai requisiti minimi della direttiva, bensì anche alla sovraregolamentazione nazionale (CGUE, C-234/2012, Sky Italia Srl c. Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, 18 luglio 2013, punto 14).
Vi sarebbe anche il caso in cui le misure nazionali di protezione rafforzata rientrino in una sorta di divieto dell’Unione: in tal caso, la Carta si applica alla sovraregolamentazione nazionale poiché tali misure devono essere autorizzate dall’UE sulla base di possibili motivi di giustificazione.
Un’altra eccezione è composta dalle c.d. clausole di sospensione. Talvolta gli atti giuridici dell’UE autorizzano gli Stati membri a mantenere alcune disposizioni della loro precedente legislazione nazionale che, senza tale autorizzazione, sarebbero incompatibili con l’atto giuridico dell’Unione. Ne deriva che, nella misura in cui uno Stato membro mantiene tali disposizioni, non attua il diritto dell’Unione ai sensi dell’art. 51, paragrafo 1, della Carta. Piuttosto, proprio come nel caso della sovra regolamentazione, questa eccezione riconosce il potere di cui gli Stati membri già godono in virtù del diritto nazionale.
Un esempio può essere una clausola di sospensione in materia di diritto tributario. La direttiva 77/388 CEE del Consiglio, del 17 maggio 1977, in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative alle imposte sulla cifra di affari non ha fornito un’armonizzazione completa, in quanto questa cosiddetta sesta direttiva, in virtù dell’art. 28, par. 3, lett. b), autorizza senza riserve gli Stati membri al mantenimento di alcune disposizioni della loro legislazione nazionale precedenti alla stessa direttiva con la quale, senza tale autorizzazione, sarebbero incompatibili. La CGUE ha dichiarato che “nella misura in cui uno Stato membro mantiene in vigore disposizioni del genere, non traspone la stessa direttiva e non viola dunque né la direttiva né i principi generali comunitari che gli Stati membri, secondo la sentenza Klensch, devono rispettare nell’attuare la disciplina comunitaria (CGUE, C-36/99, Idéal tourisme SA c. Stato belga, 13 luglio 2000, punti 37 e 38).
In base all’art. 4, par. 3, TUE, in virtù del principio di leale cooperazione, l’Unione e gli Stati membri si rispettano e si assistono reciprocamente nell’adempimento dei compiti derivanti dai trattati. Gli Stati membri adottano, quindi, ogni misura di carattere generale o particolare volta ad assicurare l’esecuzione degli obblighi derivanti dai trattati o conseguenti agli atti delle istituzioni dell’Unione. Inoltre, gli stessi facilitano all’Unione l’adempimento dei suoi compiti e si astengono da qualsiasi misura che rischi di mettere in pericolo la realizzazione dei suoi obiettivi.
Nello specifico, vige l’obbligo per gli Stati membri di attuare gli obblighi specifici (sostanziali e procedurali) degli atti giuridici dell’Unione, accompagnato dall’obbligo di adottare tutte le misure necessarie per rendere effettivi gli atti giuridici dell’Unione nel loro ordinamento giuridico nazionale. Esiste anche l’obbligo di attuare il diritto dell’Unione in modo che le singole parti possano far valere i diritti loro riconosciuti dalla legislazione dell’Unione: obbligo che esiste sempre, anche quando gli atti giuridici dell’Unione non contengono disposizioni specifiche riguardanti le sanzioni, i mezzi di ricorso e l’esecuzione.
Le misure nazionali utilizzate per garantire l’applicazione e l’efficacia del diritto UE si qualificano come “attuazione del diritto dell’unione” ai sensi dell’art. 51, par. 1, della Carta.
Tali misure comprendono:
- sanzioni (penali o amministrative) per una violazione del diritto dell’Unione;
- mezzi di ricorso per garantire la tutela giudiziaria dei diritti individuali ai sensi del diritto dell’Unione;
- norme procedurali che disciplinano tali azioni
- misure relative al rimborso delle tasse riscosse in violazione del diritto dell’Unione;
- misure volte a sanzionare comportamenti lesivi degli interessi finanziari dell’Unione.
Questo tipo di misure sono qualificate come “in attuazione del diritto dell’Unione” a prescindere dal fatto che siano o meno adottate per recepire il diritto dell’Unione nel diritto nazionale.
Le misure penali nazionali volte a sanzionare l’inosservanza delle disposizioni del presente regolamento rientrano nell’ambito di applicazione dell’articolo 51. Nella causa Garenfeld si è concluso che il codice penale tedesco può essere considerato come attuazione nel contesto del presente regolamento e che si applica l’art. 49, par. 1 della Carta (principio della legalità penale).
Resta da stabilire, invece, nella giurisprudenza della CGUE se lo stesso approccio si applichi o meno alle misure di diritto civile nei confronti di privati per violazione di norme basate sul diritto dell’Unione (ad esempio, la responsabilità civile). Queste misure, siano esse considerate come mezzi di ricorso (compensazione) ovvero aventi natura punitiva, potrebbero essere qualificate come “misure di attuazione”. Resta comunque indubbio che questo tipo di atti nazionali si qualificano come misure di attuazione se gli atti legislativi dell’Unione li prevedono espressamente.
Passiamo ora alla questione delle proposte legislative al di fuori del processo di recepimento degli atti giuridici dell’UE.
Se una legislazione nazionale non viene adottata per attuare il diritto dell’Unione (e che ha quindi un carattere puramente nazionale) può comportare l’attuazione del diritto dell’Unione in diverse situazioni.
Per le proposte legislative di origine puramente nazionale (e quindi non avviate a seguito di atti giuridici dell’Unione) vige una minore se non nulla consapevolezza della possibile forza vincolante della Carta. Tuttavia, anche nel caso in cui gli Stati membri legiferano nell’ambito delle loro competenze ovvero senza l’intenzione di recepire il diritto dell’Unione nel diritto nazionale, la Carta può essere applicata.
Si può dunque affermare che le misure nazionali che rientrino nell’ambito di applicazione materiale, personale e temporale degli atti giuridici dell’Unione si qualificano come attuazione dell’articolo 51, anche se non sono destinate ad attuare tale legislazione. In sostanza, questa tipica forma di “attuazione del diritto dell’Unione” può essere vista come un’omissione di attuazione, in quanto il legislatore nazionale non intende attuare il diritto dell’Unione, ma dovrebbe farlo.
Un esempio lampante è il già citato caso riguardante il codice civile tedesco. Nella causa Kucukdeveci, la legislatore nazionale in questione era il codice civile tedesco che comprendeva disposizioni sul periodo di preavviso per il licenziamento. Anche se tale legislazione non è stata adottata per attuare il diritto dell’Unione, La CGUE ha ritenuto che, nella fattispecie, la legislazione tedesca rientrasse nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione poiché le condizioni di licenziamento sono disciplinate dalla direttiva 2000/78/CE. Di conseguenza, l’effetto della presente direttiva è stato quello di far rientrare la legislazione nazionale in questione nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione, facendo applicare il principio generale di non discriminazione in base all’età.
Dunque la semplice interazione con gli atti giuridici dell’Unione non è sufficiente: la legislazione in questione dovrebbe effettivamente rientrare nell’ambito di applicazione di un particolare atto giuridico dell’Unione, sia per quanto riguarda il suo campo di applicazione personale (chi è coperto?), il suo campo di applicazione sostanziale (quali situazioni sono coperte?) o la sua applicazione temporale.
Per quel che riguarda la verifica della conformità della Carta, si intende la verifica della compatibilità dei diritti fondamentali delle proposte legislative nazionali.
Innanzitutto, in tale situazione, come prima fase bisognerebbe:
- individuare le limitazioni sui diritti fondamentali. Invero, eventuali limitazioni all’esercizio dei diritti e delle libertà riconosciuti dalla presente Carta devono essere previste dalla legge e rispettare il contenuto essenziale dei diritti e libertà. Inoltre, sulla base del principio di proporzionalità, possono essere apportate limitazioni esclusivamente laddove siano necessarie e se rispondenti effettivamente a finalità di interesse generale riconosciute dall’Unione o all’esigenza di proteggere i diritti e le libertà altrui;
- verificare se la limitazione interessi o meno un diritto assoluto della Carta, anche se la stessa non individua esplicitamente i diritti assoluti. Sulla base delle spiegazioni relative alla Carta, CEDU e della giurisprudenza dei Tribunali europei, si sostiene che la dignità umana (art. 1 della Carta), la proibizione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti (art. 4 della Carta), la proibizione della schiavitù e del lavoro forzato (art. 5, paragrafi 1 e 2 della Carta), la libertà di pensiero, coscienza e religione interna (art. 10, par. 1 della Carta), la presunzione di innocenza e diritti della difesa (art. 48 della Carta), il principio di legalità (art. 49, par. 1, della Carta) e il diritto di non essere giudicato o punito due volte per lo stesso reato (art. 50 della Carta) possono essere considerati i diritti assoluti.
- verificare se le limitazioni sono previste dalla legge. Tali limitazioni possono infatti essere previste dal diritto nazionale o dati giuridici dell’UE; bisognerebbe dunque controllare se esse siano o meno adeguatamente accessibili e prevedibili. La prevedibilità è un criterio fondamentale nella stesura degli atti giuridici, sviluppato nella giurisprudenza della CEDU. Un atto è accessibile se è stato pubblicato correttamente (il diritto dell’UE, ad esempio, è pubblicato nella Gazzetta Ufficiale dell’UE); la prevedibilità, invece, richiede che un atto sia formulato con sufficiente precisione per consentire al cittadino di adattare il suo comportamento alla norma. In sostanza, i cittadini devono essere in grado di prevedere, in misura ragionevole, le conseguenze che una legge possa comportare.
- Controllare il rispetto dell’essenza del diritto fondamentale interessato chiedendosi se la limitazione metta in discussione il diritto in quanto tale. È altresì probabile che una limitazione non rimetta in discussione il diritto se ne limita l’esercizio in circostanze ben definite e limitate. Ad esempio, nella causa Schrems e Digital Rights, la CGUE ha ritenuto che una normativa che consenta alle autorità pubbliche di accedere in maniera generalizzata al contenuto di comunicazioni elettroniche “pregiudichi il contenuto essenziale del diritto fondamentale al rispetto della vita privata, come garantito dall’articolo 7 della Carta”.
Inoltre, bisognerebbe:
- valutare l’opportunità o meno di giustificare le limitazioni, chiedendosi dunque se esse servano per un obiettivo legittimo, per finalità di interesse generale o all’esigenza di proteggere diritti e libertà altrui, individuandone dunque lo scopo. Innanzitutto la coesistenza di più obiettivi non esclude l’esistenza di uno scopo legittimo. E’ il giudice che può o meno individuare la finalità legittima ai fini del controllo: la finalità perseguita deve essere infatti chiara o dall’atto stesso o da altri elementi del contesto generale dell’atto in questione;
- valutare anche l’adeguatezza della limitazione e dunque chiedersi se la stessa sia idonea a raggiungere l’obiettivo perseguito. Per farlo, bisognerebbe controllare la coerenza interna: una legislazione è idonea a garantire il conseguimento dell’obiettivo perseguito solo se persegue tali obiettivi in modo coerente e sistematico;
- verificare la necessità di una limitazione. Bisognerebbe valutare, infatti, l’esistenza di alternative: quando vi è una scelta tra diverse misure appropriate, si deve ricorrere a quella meno onerosa, cioè quella che interferisce meno con il diritto fondamentale interessato.
Inoltre, le limitazioni devono essere proporzionate all’obiettivo perseguito, ossia la misura non dovrebbe imporre un onere sproporzionato ed eccessivo alle persone interessate dalla limitazione rispetto all’obiettivo perseguito. E’ dunque necessario trovare un equilibrio tra l’interesse a realizzare l’obiettivo legittimo e l’interferenza con il diritto fondamentale interessato.
Bisognerebbe inoltre chiedersi se le limitazioni sono coerenti con la CEDU: infatti, nel fissare le limitazioni dei diritti corrispondenti ai diritti della CEDU, è necessario il rispetto delle norme stabilite dalle disposizioni in materia di limitazione dalla CEDU stessa. A tal fine bisognerebbe controllare la CEDU e la sua stessa giurisprudenza per determinare se la limitazione sia consentita. Per fare un esempio, l’articolo 10 della Convenzione (libertà di espressione) contiene pochi e dettagliati motivi per le restrizioni di tale libertà. Di conseguenza, è possibile tener conto soltanto di tali motivi come scopi legittimi per giustificare i limiti al corrispondente diritto della Carta (articolo 11).
Dott.ssa Melania Longhi