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Diffamazione su internet

Diffamazione su internet

Diffamazione in rete

 

La recente diffusione dell’era digitale ha reso possibile una comunicazione semplice e veloce. A differenza di quanto avviene per i media tradizionali, in internet le notizie ed i commenti non sono, di norma, frutto dell’attività di professionisti e non sono soggetti ad un regime di controllo professionale. E se tale circostanza può rappresentare un guadagno in termini di libertà e spontaneità della comunicazione, è anche vero che si traduce in una minore autorevolezza ed in un minore affidamento preventivo da parte del pubblico sulla credibilità dei contenuti esposti.

Attraverso le più famose app di messaggistica istantanea come Facebook e Whatsapp le informazioni sono capaci di raggiungere un numero indefinito di persone fungendo da amplificatore delle informazioni pubblicate sul web e talvolta queste informazioni possono essere non vere o, addirittura, avere carattere denigratorio ed infamante nei confronti del suo destinatario.

Il danno subito da una vittima di diffamazione per il tramite di mass media (TV, web, giornali) o di social network (Facebook, Linkedin, Twitter) può assumere un’entità ben più consistente rispetto al passato, ragion per cui diventa fondamentale conoscere, ed intraprendere, tutte le possibili vie di tutela da al fine di tutelarsi dagli attacchi diffamatori subiti.

A norma dell’art 595 del codice penale commette il reato di diffamazione “Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione”. La pena è fino ad un massimo di 2 anni e della multa di 2065 euro ed è aggravata se avviene a mezzo stampa con qualsiasi altro mezzo di pubblicità.

Il requisito cardine della condotta per costituire reato è che deve ledere l’altrui reputazione intesa come la lesione di qualità morali, sociali, professionali in grado di danneggiare l’immagine, l’onore o il decoro della persona. Secondo la giurisprudenza ciò che rileva è la portata offensiva delle parole utilizzate non tanto delle parole che potrebbero essere ingiuriose di per sé ma quelle che paragonano l’offeso per darne un senso spregiativo.

Mi riferisco alla recentissima pronuncia della Corte Suprema che ha annullato la sentenza di assoluzione dal reato di diffamazione emessa nei confronti dell’imputato di quel processo, il quale -in una chat di un gruppo “WhatsApp” aveva utilizzato il sostantivo “animale” per indicare in maniera spregiativa il bambino che aveva procurato una ferita al volto della figlia.

La Corte di Cassazione ha chiarito che anche la continenza in cui si presenta l’offesa è determinante; nell’ambito delle trasmissioni dedicate al pettegolezzo il contenuto deve valutarsi secondo i parametri propri della critica di costume, la quale consente toni anche sferzanti purché non gratuiti e sempre pertinenti al fatto narrato ed al concetto da esprimere (Cass. pen., sez. V, 20/03/2019, n. 32829).

In merito alla pubblicazione di post diffamatori sui social networks, su questa tematica è stato chiarito che anche postare un commento denigratorio su un qualunque social network configurerebbe il reato di diffamazione (Cass. pen., sez. V, 13/07/2015, n. 8328).

Il secondo requisito della condotta criminosa della diffamazione citato dall’articolo 595 c.p. è la comunicazione tra più persone, occorre quindi che l’agente renda partecipi dell’addebito diffamatorio almeno due o più persone. Chiariti i requisiti della condotta criminosa la figura della vittima non deve essere necessariamente identificata dal suo nome e cognome, ma basta che essa risulti identificabile.

Per quanto riguarda l’elemento soggettivo è importante sottolineare che il dolo richiesto purché si realizzi la fattispecie deve essere generico ossia che l’autore sia consapevole che dalle parole utilizzate risulti lesa la reputazione altrui.

 

E ‘ineccepibile quindi che il reato di diffamazione possa configurarsi quando il contenuto diffamatorio venga propagato attraverso social networks o siti internet, blog, ed altri canali telematici. Ed è vero anche che si configurerebbe una circostanza aggravata dacché si utilizza un sopporto di pubblicità nella diffusione dei contenuti diffamatori.

È innegabile anche che queste nuove fattispecie ricondotte all’art 595 c.p. pongano nuove problematiche in particolare nell’individuazione dell’autore.

Infatti, mentre non sorgono particolari problemi in merito all’identificazione della vittima di diffamazione, giacché vale quanto già illustrato in tema di diffamazione in generale, ossia che non occorre che la vittima sia stata identificata per nome e per cognome, purché risulti identificabile tramite altri elementi indiziari, lo stesso non potrà dirsi in merito all’identificazione dell’autore del reato.

La giurisprudenza prevalente ritiene che l’attribuibilità del fatto al titolare dell’account da cui è stato scritto il commento diffamatorio non potrà essere l’unica prova, potendo lo stesso essere stato clonato od essere stato utilizzato da altri (Tribunale Pescara, 05/03/2018, n. 652). Al contrario, si reputa necessaria l’individuazione da parte delle autorità inquirenti del così detto indirizzo “IP”, ovvero del codice numerico assegnato in via esclusiva ad ogni nodo della rete web. L’indirizzo IP è di fondamentale importanza in quanto consente di individuare la linea da cui è stato pubblicato il contenuto diffamatorio e permette, altresì, di verificare la corrispondenza o meno a quella riconducibile al soggetto sospettato.

Alla luce di quanto detto in precedenza, la giurisprudenza ha statuito in più occasioni che senza l’accertamento del IP di provenienza del messaggio che offende la reputazione non potrà scattare la condanna per il reato di diffamazione aggravata ex art. 595, comma 3, c.p., occorrendo invece una puntuale verifica da parte dell’autorità giudiziaria volta ad individuare il predetto indirizzo. Senza di esso, non si potrà ottenere il massimo grado di certezza possibile in merito all’attribuzione della responsabilità penale, potendosi difatti ipotizzare un utilizzo abusivo del nickname dell’account Facebook (Cass. Pen. sez. V, 22/11/2017, n. 5352). Altro problema è la responsabilità penale del gestore del sito o del blog che diffonde contenuti lesivi pubblicati da altri. La giurisprudenza ha teso ad escludere la responsabilità del gestore almeno quando quest’ultimo non era stato messo a conoscenza del commento o articolo offensivo presente sul portale da lui gestito, oppure quando effettivamente era stato informato ma aveva provveduto con solerzia alla rimozione del contenuto contestato.

Può quindi rispondere penalmente se non toglie e mantiene i contenuti denigratori consapevolmente.

A questo punto sembra opportuno sottolineare che esiste una tutela particolare per i soggetti colpiti dalla diffamazione e cioè il diritto all’oblio, cioè della possibilità di eliminare dai motori di ricerca l’articolo denigratorio pubblicato da un certo blog piuttosto che da un sito web.

Le esigenze di tutela della privacy prevalgono sul diritto all’informazione ove determinati avvenimenti o notizie, ancorché veri ed effettivamente accaduti, vengano riproposti all’attenzione del lettore a notevole distanza di tempo, qualora gli stessi siano privi di interesse pubblico ed inidonei a legittimare l’esimente del diritto di cronaca per mancanza del requisito dell’attualità della notizia. Tale requisito può essere inserito nell’ambito della pertinenza ed inteso quale mancanza di utilità sociale dell’informazione. Appare evidente che, data la sempre maggiore diffusione dei cd. motori di ricerca, il diritto all’oblio viene gravemente compromesso dall’uso del Web dato che ogni informazione sarà a disposizione del ricercatore che verrà a conoscenza di situazioni o fatti verificatisi anche a notevole distanza di tempo.

Per agire penalmente si dovrà procedere a querela della persona offesa entro il termine di tre mesi dai fatti di reato e dovrà valutare se attendere la prosecuzione penale o costituirsi parte civile chiedendo il risarcimento dei danni.

In sede penale l’interessato potrà chiedere il sequestro preventivo del sito o della pagina web che contenga il contenuto offensivo qualora il gestore si rifiuti di eliminarla attivamente.