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I contratti

I contratti

Il contratto è il negozio giuridico per eccellenza, tanto che la disciplina prevista dal nostro codice civile in materia contrattualistica viene estesa anche agli altri negozi giuridici contemplati dal nostro ordinamento, laddove ovviamente non sia previsto diversamente o sia compatibile col tipo di negozio. Pertanto, occorre preliminarmente dare una definizione di negozio giuridico, che può inquadrarsi come una dichiarazione di volontà con la quale le parti decidono di produrre determinati effetti giuridici che l’ordinamento riconosce e reputa conformi al tipo di negozio posto in essere.

 

All’interno di questa macro-categoria rientra il contratto, la cui definizione invece ci viene fornita direttamente dall’art. 1321 c.c. (che apre il titolo del codice dedicato proprio alla disciplina generale dei contratti) e non viene rimessa, come per il negozio, alla ricostruzione dottrinale. Il contratto, dunque, è l’accordo fra due o più parti con cui queste costituisco, regolano o estinguono un rapporto loro rapporto giuridico patrimoniale. Da questa definizione emerge, come già detto in materia di obbligazioni, che il contenuto del contratto deve avere necessariamente carattere patrimoniale, per soddisfare gli interessi (non necessariamente patrimoniali delle parti).

Questo strumento è quello con cui le parti possono esercitare la propria autonomia negoziale, nello specifico la propria autonomia contrattuale, che permette loro di determinare liberamente (nei limiti previsti dalla legge) tanto il contenuto quanto la tipologia del contratto. Nel nostro ordinamento vi è un principio generale di libertà della forma del contratto, fatti salvi i casi in cui questa viene espressamente prevista dalla legge come requisito sostanziale per la formazione del contratto (il riferimento è all’art. 1350 c.c.).

Fra l’altro è bene sottolineare come non ogni accordo può essere inquadrato come contratto, poiché deve avere determinate caratteristiche previste dalla legge. La norma che indica gli elementi essenziali del contratto è l’art. 1325 c.c., il quale stabilisce che questi sono l’accordo delle parti, la causa, l’oggetto e, quando prescritta dalla legge, la forma. È necessario dunque analizzare singolarmente questi singoli elementi per poter avere una panoramica completa dell’istituto in esame.

Prima di occuparci di questi aspetti è bene passare in rassegna le diverse classificazioni di contratto che il nostro ordinamento conosce. I contratti infatti possono essere:

tipici (o nominati) o atipici (o innominati), a seconda che lo schema contrattuale adottato dalle parte sia espressamente previsto o meno dalla legge;

bilaterali o plurilaterali, a seconda che le parti siano due o più di due;

– a prestazioni corrispettive (sinallagmatici) o con obbligazioni a carico di una sola parte (con importanti ripercussioni in ambito di trattativa contrattuale);

– a titolo oneroso o a titolo gratuito;

commutativi o aleatori, a seconda che le prestazioni dovute siano certe o, come nel caso delle assicurazioni, incerte;

– di scambio o associativi, a seconda che la prestazione sia a vantaggio della controparte o che ciascuna prestazione sia diretta al conseguimento di uno scopo comune;

– a esecuzione istantanea o di durata;

– a forma libera o a forma vincolata;

consensuali o reali, con i primi che si perfezionano col semplice consenso o accordo delle parti (costituiscono la maggioranza dei casi), mentre i secondi richiedono anche la consegna del bene (come, ad esempio, il mutuo o il deposito);

– ad efficacia reale o ad efficacia obbligatoria, con i primi che, per effetto del consenso, realizzano direttamente l’effetto concordato su un diritto reale (trasferimento, costituzione, modificazione etc.), mentre i secondi obbliga le parti a porlo in essere (come avviene nei contratti preliminari).

L’ACCORDO

Accordo. Trattative e conclusione del contratto. Proposta ed accettazione.

L’accordo è il primo degli elementi essenziali che costituiscono il contratto; esso è l’incontro fra le volontà delle parti circa il contenuto del negozio. Senza una volontà comune, il negozio non può essere posto in essere. Per valutare il corretto raggiungimento di questo punto d’incontro fra le parti è necessario che il suo processo di perfezionamento avvenga in maniera conforme a quanto previsto dalla legge, in particolare quanto previsto dagli artt. 1326 ss. c.c..

La formazione del contratto si raggiunge solamente dopo la fase di trattativa fra le parti e consta fondamentalmente di due atti, vale a dire la proposta e l’accettazione. Nonostante parte della dottrina abbia provato ad affermare che questi costituiscano ciascuna un negozio, l’opinione tuttora prevalente li inquadra come semplici elementi prenegoziali. Entrambe costituiscono comunque dichiarazioni di volontà individuali e solamente quando queste coincidano si può arrivare alla formazione dell’accordo.

Il processo di formazione di tale volontà comune inizia proprio con l’avanzamento di una proposta da parte di una delle parti all’altra e deve concludersi con l’accettazione di quest’ultima. Affinché l’accettazione sia valida deve anzitutto pervenire nel termine indicato dal proponente o da quello indicato dalla natura del negozio o dagli usi. Diversamente, infatti, il proponente sarebbe perennemente vincolato ad una proposta e ad una accettazione perennemente, anche quando non dovesse avere più interesse alla conclusione del negozio o le sue condizioni dovessero essere sostanzialmente diverse, minando l’equilibrio del contratto stesso.

Inoltre l’accettazione deve essere totalmente conforme alla proposta. Se infatti l’accettazione fosse parziale, indicando condizioni diverse da quella della proposta, questa equivarrebbe ad una nuova proposta (art. 1326, ult. co., c.c.). A quel punto sarebbe il primo proponente a dover accettare la nuova proposta.

Da ultimo, è bene ricordare come il proponente può richiedere che l’accettazione avvenga in una determinata forma affinché sia valida.

Tale “iter” deve essere tenuto a mente per poter stabilire con esattezza il momento del perfezionamento del contratto. Se, infatti, è molto semplice individuarlo nel caso in cui la trattativa avvenga in presenza delle parti, in un medesimo contesto temporale e spaziale, lo stesso non può dirsi laddove proposta ed accettazione avvengano a distanza, ad esempio per corrispondenza. In questo caso sarà necessario stabilire il momento in cui l’accettazione debba ritenersi efficace e, quindi, il contratto concluso. Generalmente tale momento di efficacia viene individuato, a seconda del tipo di atto, in diversi momenti, vale a dire:

– quello della dichiarazione, con la manifestazione di volontà efficace sin dal momento in cui viene espressa;

– quello della spedizione, con efficacia a partire dal momento dell’invio della dichiarazione;

– quello della ricezione, con efficacia dal momento in cui l’altra parte riceve l’atto;

– quello della cognizione, con efficacia dal momento in cui l’altra parte viene a conoscenza dell’atto.

Per quanto riguarda l’accettazione, il nostro ordinamento accorda efficacia alla dichiarazione proprio dal momento in cui il proponente viene a conoscenza dell’accettazione. Tuttavia tale principio, che rischierebbe di rendere troppo gravosa l’eventuale prova dell’effettiva conoscenza dell’accettazione, è fortemente mitigato dalla presunzione di conoscenza di cui all’art. 1335 c.c.; secondo tale norma, infatti, proposta, accettazione e la loro revoca si presumono essere a conoscenza del destinatario nel momento in cui viene da lui ricevuto. In questo modo, in sede processuale, non spetterà al mittente dover dimostrare che il destinatario ha effettivamente avuto conoscenza della dichiarazione, ma spetterà semmai al destinatario dimostrare di essersi trovato nell’impossibilità di averne notizia, a patto che tale situazione di impossibilità non dipenda da sua colpa.

 

Fermo restando quanto appena esposto, vi sono altri modi per concludere un contratto che prevedono un iter formativo diverso. Anzitutto è bene precisare che gli artt. 1326 e 1335 c.c. possono sempre essere derogati dalle parti, prevedendo che il momento e le condizioni di perfezionamento del contratto siano diversi rispetto a quelli della disciplina generale.

Una prima deroga espressa prevista dal nostro ordinamento è quella di cui all’art. 1327 c.c., che prevede la possibilità di eseguire direttamente la prestazione indicata nella proposta senza previa accettazione. Questo tipo di perfezionamento del contratto non è sempre possibile, ma richiede determinate condizioni. Il perfezionamento mediante esecuzione anzitutto deve essere previsto dagli usi l tipo di contratto o essere conforme alla natura dell’affare. Alternativamente, deve essere il proponente a prevedere espressamente che, a seguito della proposta, il destinatario possa procedere direttamente all’esecuzione di quanto stabilito senza previamente formalizzare la propria accettazione. Diversamente non sarebbe possibile perfezionare il negozio mediante esecuzione.

 

Un altro caso in cui si deroga alla disciplina generale è quello del contratto con obbligazione a carico del solo proponente. In questo caso, proprio perché sul destinatario non ricade alcun onere, non è necessaria alcuna accettazione per il perfezionamento del contratto, essendo per ciò sufficiente il semplice contegno omissivo del destinatario; la proposta di tale tipo di contratto si ritiene, disciplinato dall’art. 1333 c.c., è ex lege irrevocabile dal momento in cui giunge a conoscenza del destinatario. Ovviamente quest’ultimo può comunque non accettare la proposta dell’altro contraente. Per farlo dovrà espressamente comunicare il proprio rifiuto entro un termine congruo, da valutare in base alla natura del contratto e agli usi del singolo negozio (ove non espressamente previsto), decorso il quale la proposta si riterrà accettata.


Revoca di proposta ed accettazione (art. 1328 c.c.)

Le parti hanno comunque la possibilità di revocare tanto la propria proposta quanto la propria accettazione, a patto che siano rispettati determinate tempistiche e modalità. Tale possibilità è espressamente prevista dall’art. 1328 c.c., che disciplina separatamente la revoca della proposta e quella dell’accettazione.

Per quanto concerne la prima, questa viene considerata (anche dalla Corte di Cassazione) un atto unilaterale non recettizio, motivo per il quale si ritiene impedisca la conclusione del contratto qualora venga semplicemente emessa dal proponente prima che lo stesso abbia conoscenza dell’accettazione. Inoltre, nel caso in cui il proponente muoia o diventi soggetto incapace prima che il contratto sia perfezionato, la proposta perderà egualmente efficacia.

Il nostro ordinamento prevede anche la possibilità, in capo al proponente, di rendere la propria proposta irrevocabile (art. 1329 c.c.). Poiché però i vincoli perpetui non vengono ritenuti accettabili dal nostro sistema, l’irrevocabilità della proposta può essere mantenuta solamente per un certo lasso di tempo espressamente indicato. Il codice non indica cosa accade nel caso in cui tale termine non venga indicato, tuttavia la Cassazione sembra preferire la soluzione per la quale la proposta irrevocabile senza termine equivalga ad una normale proposta revocabile ex art. 1328.

Per quanto riguarda, invece, la revoca dell’accettazione di cui all’art. 1328, co. 2, c.c., in questo caso non è sufficiente che la revoca sia semplicemente emessa prima che l’accettazione pervenga alla controparte, ma deve pervenire al proponente prima dell’accettazione stessa.

 

Trattative, dovere di buona fede e responsabilità precontrattuale.

Nonostante nel corso delle trattative le parti non abbiano ancora assunto impegni contrattuali, su di esse gravano comunque degli obblighi di condotta di grande rilevanza. La norma di riferimento, in questo momento di formazione del contratto, è l’art. 1337 c.c., che impone alle parti di comportarsi secondo buona fede. In quanto vero e proprio dovere giuridico, la violazione di tale norma comporta quella che viene definita responsabilità precontrattuale (anche nota come culpa in contrahendo). La catalogazione di questo particolare tipo di responsabilità è stata a lungo dibattuta e ancora oggi dottrina e giurisprudenza sono in parte divise su tale definizione. L’orientamento più tradizionale l’ha sempre ricondotta nella categoria della responsabilità extracontrattuale, inquadrando i doveri in questione come un’estrinsecazione del generale principio del neminem laedere. Negli ultimi anni, tuttavia, ha preso campo l’orientamento opposto (che oggi può dirsi maggioritario, tanto da essere stato accolto dalla Cassazione) che la ricomprende all’interno della responsabilità contrattuale. Tale interpretazione, infatti, inquadra il dovere di buona fede come un vero e proprio obbligo contrattuale avente fonte legale, soggetto dunque alla disciplina di cui agli artt. 1218 ss. c.c.. Tale diversa lettura comporta differenze pratiche sostanziali, in quanto muta sia il termine di prescrizione del diritto (da 5 anni passa a 10 anni) sia comporta un diverso onere della prova, in quanto ricadrà sul convenuto l’onere di dimostrare di aver rispettato il dovere di buona fede.

 

Per quanto concerne le condotte che possono portare uno dei contraenti a rispondere per responsabilità precontrattuale, si indicano, a titolo esemplificativo:

– abbandono ingiustificato delle trattative;

– mancata informazione sulle cause di invalidità del contratto;

– induzione della controparte alla stipulazione di un contratto pregiudizievole (come nel caso, ad esempio, del dolo incidente);

– influenza illecita sulla determinazione negoziale della controparte.

Da questo elenco assolutamente parziale si può notare come in alcuni casi la violazione della buona fede avvenga anche attraverso l’esercizio abusivo di un proprio diritto. Così i contraenti hanno assolutamente il diritto di abbandonare una trattativa o di non portarla al termine, tuttavia l’esercizio di ciò deve avvenire in modalità tali da non ledere la controparte.

Quanto ai profili di risarcibilità del danno, a differenza di quanto avviene in caso di inadempimento di un obbligo contrattuale, in cui viene leso un interesse positivo, corrispondente alle perdite e all’utile mancato a causa dell’inadempimento, nei casi di responsabilità precontrattuale vi è un interesse negativo che sorge dal momento che sorge dall’abusiva interruzione delle trattative. Sono due i profili che devono essere considerati nella quantificazione del risarcimento del danno: da un lato, infatti, devono essere risarcite le spese inutilmente sostenute per la mancata conclusione del contratto (c.d. danno emergente); dall’altro, invece, vi è il mancato guadagno che la parte avrebbe potuto ottenere se avesse impiegato le proprie risorse non nella trattativa fallita a causa di una condotta scorretta della controparte ma in altre contrattazioni (c.d. lucro cessante). Logicamente queste ultime non devono essere contrattazione meramente astratte o teoriche, ma si dovrà dare prova dell’esistenza e della concretezza di tali potenziali affari che il contraente avrebbe potuto concludere.

 

LA CAUSA

La causa è il secondo elemento essenziale del contratto indicato dall’art. 1325 c.c. e quello la cui definizione è stata la più problematica. In un’accezione più ampia il termine causa sta ad indicare il titolo (vale a dire la fonte) in forza del quale una determinata obbligazione è dovuta. Inoltre serve anche ad indicare il fondamento di una attribuzione patrimoniale: se un soggetto paga una somma di denaro a chi erroneamente crede essere suo creditore, avremo una prestazione sine causa.

Dal punto di vista del contratto, tuttavia, il concetto di causa diventa un elemento indispensabile per tracciare il perimetro dell’autonomia contrattuale e dei suoi effetti. Infatti gli interessi e gli effetti perseguiti dal singolo negozio contrattuale devono essere leciti e meritevoli di protezione giuridica secondo quanto previsto dal nostro ordinamento. Chiaramente questa valutazione viene fatta diversamente a seconda del tipo di contratto che le parti pongono in essere. Se, infatti, nei contratti tipici è l’ordinamento stesso che ha preliminarmente compiuto una valutazione di meritevolezza dello stesso schema contrattuale e dei suoi effetti, lo stesso non può dirsi nel caso dei contratti atipici, in cui tale valutazione deve avvenire a partire proprio dallo schema contrattuale.

In questo contesto occorre inquadrare l’accezione della causa nel suo ruolo di funzione del contratto. Un contratto di compravendita, ad esempio, viene giustificato (e ritenuto meritevole di tutela) in forza del reciproco sacrificio patrimoniale; senza tale reciprocità, il contratto di compravendita sarebbe sine causa (ma potrebbe diventare, rispettando tutte le formalità del caso, un contratto di donazione). Tale funzione per anni è stata letta in chiave economico-sociale, in quanto il contratto doveva essere giustificato in forza della sua funzione sociale, quale strumento economico.

Oggi, tuttavia, l’orientamento maggioritario attribuisce alla causa una funzione economico-individuale, che valorizza anzitutto le ragioni pratiche del negozio; si parla di causa in concreto. Questa interpretazione riporta al centro della valutazione di meritevolezza l’autonomia negoziale delle parti, che possono stabilire le ragioni pratiche e gli effetti dello schema contrattuale, andando oltre a quelli che sono i fini e le ragioni contrattuali tipizzati dall’ordinamento.

Questa lettura in concreto della causa, d’altronde, ha almeno un riscontro nel nostro ordinamento, vale a dire l’art. 1344 c.c., in materia di contratto in fronde di legge. La norma precisa, infatti, che la causa è ritenuta illecita quando il contratto, pur rispettando lo schema e le forme previste dalla legge, costituisce il mezzo per eludere l’applicazione di una norma imperativa. Per quanto questa disposizione possa essere letta anche in un’accezione economico-sociale, appare evidente che l’art. 1344 c.c. possa svolgere al meglio la propria funzione compiendo una valutazione di tipo economico-individuale.

 

Tale norma è un utile trampolino per passare all’analisi degli aspetti patologici della causa del contratto, a partire dalla mancanza della causa. Questa può anzitutto essere un difetto genetico e strutturale, che sussiste sin dal momento della formazione del negozio. In questo caso il rimedio esperibile è quello della nullità ex art. 1418, co. 2, c.c..

In altri casi, invece, la mancanza di causa può essere sopravvenuta per circostanze verificatesi in un secondo momento. Queste possono essere, ad esempio, impossibilità sopravvenute, eccessiva onerosità sopravvenuta o mancato pagamento del prezzo dalla controparte. In questo caso il contratto non sarà nullo, ma si potrà sciogliere il vincolo contrattuale mediante la risoluzione (ex artt. 1453, 1463 e 1467 c.c.).

Vi sono casi in cui la causa è sì presente nel contratto ma questa è illecita ai sensi dell’art. 1343 c.c.. Non va confusa la causa illecita con l’oggetto illecito: se in questo secondo caso la valutazione di liceità riguarda la singola prestazione, nel caso in esame si deve tener conto dello scambio complessivo cui il contratto è preordinato. In entrambi i casi, comunque, si avrà come conseguenza la nullità del contratto.

La casistica di cause illecite presente nell’art. 1343 c.c. indica la contrarietà a norme imperative, all’ordine pubblico e al buon costume. Si distingue, infatti, fra causa illegale (contraria a norme imperative) e causa immorale (contraria al buon costume). Tale distinzione non è meramente formale, ma ha importanti ripercussioni sostanziali. Se, infatti, per entrambe le tipologie si avrà la nullità del contratto, diverso è il regime della soluti retentio (la ripetizione dell’indebito): nel caso di causa illegale la restituzione di quanto dato è sempre dovuta, mentre nel caso di scambi immorali si deve guardare alla naturale unilaterale o bilaterale dell’immoralità; se l’immoralità è unilaterale, la parte che la “subisce” ha diritto alla restituzione, mentre ciò non avviene nel caso sia bilaterale (come si evince anche dal tenore dell’art. 2035 c.c.). Inoltre viene negata anche in base ad una valutazione soggettiva di coloro che la pongono in essere, in particolare nel caso di funzionari pubblici.

 

Negozi astratti

Vi sono alcuni casi in cui alcuni negozi producono lecitamente i propri effetti astraendosi o prescindendo dalla causa. L’esempio più limpido di astrazione che può essere posto in essere è quello della delegazione pura, nel quale il delegato, obbligato nei confronti del delegatario, non può sollevare le eccezioni relative ai rapporti sottostanti (di valuta e di provvista).

 

I motivi

Una necessaria distinzione e specificazione deve avvenire in merito ai motivi per i quali un soggetto pone in essere un determinato negozio. Per motivo si intende non la causa, ma la finalità che il soggetto intende perseguire ponendo in essere un determinato contratto. Il motivo, oltre a poter essere privo di qualunque connotazione patrimoniale, non deve essere necessariamente comunicato alla controparte e, in ogni caso, rimane giuridicamente irrilevante. È tuttavia possibile per le parti dare rilevanza giuridica al motivo, in particolare facendone oggetto di uno specifico patto contrattuale o di una condizione.

Al di là di tale possibilità accordata alle parti, il nostro ordinamento dà rilievo ai motivi solo quando, come previsto dall’art. 1345 c.c., questi siano illeciti. Affinché il contratto sia dichiarato illecito e, dunque, nullo ex art. 1418 c.c. è necessario che il motivo, oltre ad essere illecito, sia anzitutto comune alle parti. Inoltre il contratto deve essere stato sottoscritto esclusivamente per tale motivo illecito comune. Solo in presenza di tutti questi requisiti il motivo assumerà rilevanza giuridica, portando alla nullità del contratto.

 

L’OGGETTO DEL CONTRATTO

L’articolo di riferimento del nostro codice civile è il 1346. Ciononostante, la norma in questione non ci fornisce una definizione di oggetto del contratto, quanto piuttosto ci indica i requisiti che questo deve possedere per essere regolarmente predisposto.

Un primo orientamento tende ad inquadrare l’oggetto con la prestazione dovuta, mentre secondo altri andrebbe individuato nell’oggetto dovuto, almeno nel caso di una prestazione di dare o che comunque ha per oggetto diritti su un determinato bene. Secondo alcuni si potrebbe differenziare l’oggetto a seconda del tipo di contratto, indicando la prestazione come oggetto dei contratti ad effetti obbligatori e il bene nei contratti ad effetti reali. Ciò con cui non deve essere confuso l’oggetto del contratto è il suo contenuto regolamentare, ossia l’insieme delle disposizioni che disciplinano il rapporto fra le parti.

Quanto ai requisiti indicati dall’art. 1346 c.c., questi sono:

– la possibilità, in quanto deve essere materialmente possibile l’esecuzione di quanto previsto nel contratto, con la precisazione che l’impossibilità originaria comporta la nullità del contratto (fatto salvo il caso di contratti sottoposti a termine o condizione sospensiva) o l’estinzione dell’obbligazione;

– la liceità;

– la determinatezza o la determinabilità dell’oggetto.

Quanto a quest’ultimo requisito, è bene precisare che la legge prevede in alcuni casi dei criteri integrativi per la determinazione dell’oggetto, con particolare riferimento a tariffe indicate dalla legge o stabilite secondo gli usi. Inoltre non viene escluso che la determinazione dell’oggetto possa essere operata da un terzo. L’istituto al quale si riferimento è l’arbitraggio (art. 1473 c.c.), che prevede la possibilità, in capo alle parti, di eleggere (nel contratto o in un accordo posteriore) un arbitratore, il cui compito è quello di determinare il prezzo del bene o della prestazione oggetto del contratto.

L’art. 1349 c.c. disciplina le due ipotesi di determinazione rimessa ad un terzo, distinguendo:

– la determinazione secondo equo apprezzamento, che permette alle parti di rivolgersi al giudice se la determinazione dell’arbitratore è manifestamente iniqua o erronea;

– la determinazione secondo mero arbitrio del terzo, in cui quest’ultimo decide arbitrariamente, senza necessariamente far riferimento a parametri tecnici, che non può essere impugnata a meno che non si dimostri la mala fede del terzo che ha determinato il bene.

Se nel primo caso, in caso di inadempimento del terzo, può essere il giudice per procedere alla determinazione, nel secondo invece ciò non è possibile, potendosi al limite procedere a sostituire il terzo (diversamente, il contratto è nullo).

 

FORMA DEL CONTRATTO

La forma del contratto rientra fra gli elementi essenziali del contratto e va intesa come la modalità con cui viene manifestata la propria volontà negoziale. A differenza degli altri presenti nella norma, la forma risulta essere essenziale (a pena di nullità) solamente nel caso in cui sia espressamente prescritta dalla legge. Questa impostazione rende piuttosto pacifico stabilire come il principio generale del nostro ordinamento sia quello della libertà delle forme. Tuttavia non manca chi ritiene che invece la regola generale sia quella dettata dall’art. 1350 c.c., che contiene il catalogo (aperto) dei tipi di atti che debbono farsi per iscritto, mentre la libertà delle forme rimane come principio residuale e sussidiario; tale orientamento è assolutamente minoritario, ma va tenuto presente per completezza di trattazione.

Nei casi sia richiesta la forma scritta, comunque, questa è soddisfatta sia nel caso che le parti sottoscrivano un medesimo documento, sia nel caso si scambino due esemplari del medesimo documento, ciascuno sottoscritto da una di esse.

Vi sono inoltre alcuni tipi di contratto che richiedono ulteriori formalità: il contratto di donazione, ad esempio, richiede la forma dell’atto pubblico redatto (art. 782 c.c.), oltre alla presenza di due testimoni richiesta dalla legge notarile (artt. 48 e 50, l. 16 febbraio 1913, n. 89). La mancanza di queste formalità comporta, ovviamente, la nullità del contratto.

 

In alcuni negozi, in cui vi sia uno squilibrio fra la forza contrattuale dei contraenti, le forma è un requisito richiesto a tutela della parte più debole. L’esempio classico è quello dei contratti bancari, nei quali il mancato esperimento delle formalità richieste permette solamente alla parte debole (il cliente) di far valere un particolare tipo di nullità, vale a dire la c.d. nullità di protezione. Diversamente, infatti, i vizi di forma potrebbero essere abusati dalle banche (e, più in generale, dal contraente forte) per garantirsi una facile scappatoia, magari anche difficile da individuare per un cliente poco avvezzo a certi tecnicismi in materia.

 

Negli ultimi anni, inoltre, lo sviluppo tecnologico ha richiesto ulteriori aggiornamenti legislativi per poter stabilire quali dei nuovi mezzi di comunicazione possano soddisfare i requisiti di forma scritta ex art. 1350 c.c. di cui sopra. Nel caso, ad esempio, della posta elettronica vi è il problema di riferibilità della dichiarazione trasmessa tramite questo mezzo; senza un accurato controllo e senza un adeguato sistema di protezione, infatti, un soggetto terzo potrebbe inoltrare la dichiarazione mediante il contatto mail di un altro soggetto (l’esempio che si può fare è quello di un soggetto che si impadronisce momentaneamente del cellulare di un terzo e accede al suo indirizzo email preimpostato, sprovvisto delle adeguate protezioni informatiche). Queste forme di comunicazioni, infatti, non vengono ritenute idonee a concludere un contratto. Tuttavia vi sono oggi mezzi informatici la cui sicurezza permette di ritenere soddisfatto il requisito formale ex art. 1350 c.c. (si pensi alla firma elettronica qualificata o alla firma digitale).

Inoltre con l’art. 8-ter, d.l. 135/2018 (convertito con L. 12/2019) sono stati disciplinati i c.d. smart contracts, vale a dire quei programmi che operano su “registri distribuiti” (c.d. blockchain), i cui effetti contrattuali, vincolando automaticamente le parti sulla base degli effetti predefiniti.

 

Da ultimo si segnala come la forma da adottare per un contratto possa essere stabilito convenzionalmente dalle parti (art. 1352 c.c.). In questi casi si presume che la forma sia stata prevista ad substantiam, per cui il suo mancato rispetto comporterebbe la nullità del contratto. Fra l’altro la giurisprudenza ritiene che le parti possano rinunciare a tale patto sulla forma anche tacitamente, a patto ovviamente che il loro comportamento sia univocamente e congiuntamente finalizzato a ciò.

 

L’INTERPRETAZIONE DEL CONTRATTO

Attività imprescindibile per comprendere gli effetti di un contratto è quella della sua interpretazione. Accade spesso, infatti, che talvolta il senso di un contratto non sia immediatamente comprensibile (per problemi di redazione o per tecnicismi particolari). In questo caso, dunque, è necessario interpretarlo attraverso gli strumenti che il nostro ordinamento ci fornisce. L’attività di interpretazione, infatti, non è rimessa alle semplici intuizioni di chi lo legge, ma deve seguire le regole e i princìpi dettati in materia.

Le norme dedicate all’interpretazione sono quelle di cui agli artt. 1362 ss. c.c.; come per gran parte delle disposizioni in materia di contratti, queste sono applicabili anche agli altri tipi di negozio. In particolare, si dividono due tipi di regole d’interpretazione: da un lato quelle di interpretazione soggettiva (artt. 1362-1365 c.c.), finalizzate a ricercare l’intento comune delle parti; dall’altro quelle di interpretazione oggettiva (artt. 1367-1371 c.c.), che intervengono solo laddove sia impossibile interpretare il negozio secondo le regole di interpretazione soggettiva. Non appartiene né alle une né alle altre l’art. 1366 c.c. che, in ossequio al generale principio di affidamento che permea il nostro ordinamento, stabilisce che i contratti devono essere interpretati secondo buona fede; per questo motivo, dunque, non si dovrà indagare solo il significato che la parte intende dare alla propria dichiarazione, ma anche quello che colui che la riceve può ragionevolmente dargli.

Analizzando le regole d’interpretazione soggettiva, l’art. 1362 c.c., precisa che una corretta interpretazione non deve limitarsi al significato letterale del testo, ma deve indagare anche la comune intenzione delle parti. Questa si deve ricostruire avendo riguardo al comportamento delle parti, sia precedente che successivo alla conclusione del contratto. Inoltre l’interpretazione della clausole dovrà essere fatta considerando l’atto nel suo complesso (art. 1363 c.c.).

Quanto invece alle regole d’interpretazione oggettiva, anzitutto bisognerà sempre interpretare il contratto in modo tale che questo produca effetto fra le parti, in ossequio al generale principio di conservazione dei negozi (art. 1367 c.c.). Inoltre hanno valore sussidiario nell’attività interpretativa gli usi interpretativi (art. 1368 c.c.), la natura e l’oggetto del contratto (art. 1369 c.c.). Nei casi dubbi, inoltre, le clausole si interpretano sempre nel senso meno favorevole rispetto a colui che l’ha predisposta, andando così a tutelare soprattutto contraenti meno forti nel caso di condizioni generali di contratto, moduli e formulari (art. 1370 c.c.).

Da ultimo si segnala che, dal momento che nel nostro ordinamento vi è un generale principio di favor debitoris, l’art. 1371 c.c. stabilisce che il contratto deve essere inteso nel senso meno gravoso per l’obbligato laddove il negozio sia a titolo gratuito; invece si dovrà mirare all’equo contemperamento dell’interesse fra le parti laddove sia a titolo oneroso.

 

I VIZI DELLA VOLONTÀ

Un contratto può dirsi posto in essere solamente nel momento in cui la volontà contrattuale delle parti coincida. Tuttavia il processo di formazione della volontà contrattuale deve essere libero dall’influenza di condizionamenti esterni anormali e perturbatori. Tali elementi, che viziano la volontà di una o più parti, rendono il contratto annullabile. I vizi della volontà che hanno rilevanza codicistica sono l’errore, il dolo e la violenza. Ovviamente quanto si andrà a dire a proposito di tali vizi dovrà tener conto della teoria dell’affidamento, alla luce del quale vengono interpretati tali istituti nel nostro ordinamento. Secondo quest’impostazione quando la volontà interna del dichiarante non corrisponda a quanto dichiarato o comunque la sua volontà non si è formata correttamente, bisognerà tutelare anzitutto l’affidamento dei terzi che hanno regolato la propria condotta su quanto è stato dichiarato, partendo dal presupposto che una dichiarazione contrattuale viene interpretata sempre secondo buona fede e che questa sia attendibile, efficace e corrispondente al vero.

Tali vizi riguardano la fase di formazione del contratto e non la sua fase di esecuzione.

 

L’errore

Sotto il termine errore ricadono due fattispecie piuttosto differenti fra loro. Anzitutto vi è l’errore ostativo ex art. 1433 c.c., che consiste nella divergenza fra quanto dichiarato e la volontà del dichiarante stesso; è la norma stessa a definirlo infatti come un errore che cade sulla dichiarazione o sulla sua trasmissione. L’altro tipo di errore, che è quello che codicisticamente ha maggior rilevanza, è l’errore-vizio, che consiste in un vizio che ha inciso sul processo stesso di formazione della volontà. In questo caso, dunque, dichiarazione e volontà coincidono, ma quest’ultima è viziata da un errore alla base del suo convincimento. Con l’adozione del codice vigente tale distinzione ha in parte perso importanza, in quanto mentre in precedenza si riteneva che l’errore ostativo comportasse la nullità del contratto, ora è lo stesso art. 1433 c.c. a specificare che la disciplina prevista per l’errore-vizio (regime di annullabilità) sia applicabile anche per l’errore ostativo.

 

Concentrandoci, dunque, sull’errore-vizio e sulla sua disciplina, l’art. 1428 c.c. richiede due requisiti affinché il negozio sia annullabile, vale a dire l’essenzialità e la riconoscibilità.

Quanto all’essenzialità, l’art. 1429 c.c. individua in maniera chiara la casistica con cui tale requisito viene soddisfatto. Anzitutto è bene precisare che essenziale non è sinonimo di determinante. L’essenzialità riguarda determinati aspetti espressamente indicati proprio dall’art. 1429; come si vedrà, solo in alcuni casi l’essenzialità assume anche il carattere di elemento determinante nella stipula del contratto.

Per essenziale si intendono gli errori:

– sulla natura e sull’oggetto del contratto;

– sull’identità dell’oggetto della prestazione;

– su una qualità dello stesso, che deve essere ritenuto determinante nella stipula del contratto secondo il comune apprezzamento (un capo di abbigliamento realizzato con determinati materiali piuttosto che con altri);

– sull’identità o sulle qualità dell’altro contraente, a patto che sia stato determinante per ottenere il consenso della controparte (in particolare nella prestazioni d’opera professionali o artistiche);

errore di diritto, quando è stata l’unica ragione (o la principale) della stipula del contratto.

 

Quanto, invece, alla riconoscibilità dell’errore, l’art. 1431 c.c. stabilisce che tale requisito sussiste quando tale errore sia riconoscibile usando la normale diligenza, sempre tenendo conto però delle qualità dei contraenti, dal contenuto del contratto e delle circostanze del caso. Da tale inciso si evince come la valutazione circa la riconoscibilità dell’errore vada fatta caso per caso, essendo un indagine che avviene in concreto.

Nel caso in cui l’errore sia bilaterale o comune (quando i contraenti incappino nel medesimo errore), l’orientamento giurisprudenziale prevalente ritiene che per l’annullabilità del negozio sia sufficiente che l’errore sia solamente essenziale.

 

Dolo (art. 1439 c.c.)

Anche per quanto riguarda il dolo occorre preliminarmente fare una precisazione terminologica. Preliminarmente si deve rilevare come il dolo quale vizio del consenso viene indicato anche come dolo-inganno, per differenziarlo dal dolo quale elemento soggettivo dell’illecito (c.d. dolo-intenzione).

Il dolo ha rilevanza giuridica, comportando l’annullabilità del negozio, quando concorrono tre requisiti. Il primo di questi consiste nel raggiro o nell’artifizio, vale a dire l’azione idonea a trarre in inganno la controparte. Sulle tipologie di condotte da ricomprendere nei raggiri e negli artifizi c’è tuttora un intenso dibattito che talvolta impedisce di individuare con certezza la configurabilità di alcune azioni come raggiro o artifizio. Tradizionalmente, infatti, la reticenza (il c.d. dolo omissivo) non veniva ritenuto rilevante ai fini della configurazione del dolo. Negli anni, però, l’esigenza di fornire un’adeguata tutela ai contraenti deboli in determinati tipi di contratti (contratti del consumatore, contratti finanziari etc.) hanno spinto sia il legislatore che la giurisprudenza a dare maggior rilevanza a tali condotte omissive, in particolare, ad esempio, per quanto riguarda gli obblighi di informazione cui il professionista è tenuto. Ovviamente si dovrà dimostrare anche la mala fede e la consapevolezza del contraente di trarre un indebito vantaggio dalla propria condotta.

Il raggiro e l’artifizio, come anticipato, non bastano da soli a configurare il dolo-inganno, essendo necessario sia che da tale raggiro o artifizio nasca come conseguenza diretta un errore della controparte sia che l’inganno provenga dall’altro contraente e non da terzi (salvo che la controparte ne fosse cosciente e ne abbia deliberatamente tratto un vantaggio).

Può anche accadere che il dolo non determini il soggetto a stipulare il contratto (c.d. dolo determinante, art. 1439 c.c.), quanto piuttosto determini l’individuo a sottoscrivere il negozio a condizioni diverse rispetto a quelle che avrebbe accettato se la condotta ingannevole non fosse stata posta in essere. In questo caso si parla di dolo incidente (art. 1440 c.c.) e il regime giuridico muta; il contratto non sarà annullabile, ma comunque potrà essere considerato e valutato ai fini del risarcimento del danno.

Rimane fuori dall’applicazione dell’istituto in esame il c.d. dolus bonus, vale a dire la bonaria esaltazione del proprio prodotto, che ha particolare rilevanza nella disciplina consumeristica. Non a caso l’art. 20 del Codice del consumo tollera le dichiarazioni pubblicitarie esagerate (o comunque non destinate ad essere prese alla lettera).

Il dolo presenta inoltre un evidente punto di contratto con la truffa (art. 640 c.p.). Nel singolo caso si dovrà valutare se l’artifizio o raggiro, sicuramente rilevante a livello civile, siano idonei ad integrare anche il reato in questione. Tuttavia è bene rilevare come ciò non modifichi la disciplina civile, in quanto l’orientamento prevalente ritiene che anche laddove si configuri il reato di truffa, il contratto sia annullabile e non nullo per illiceità.

 

Violenza (1434 ss. c.c.)

Il nostro ordinamento conosce due tipi di violenza. Il primo è quello della violenza fisica (vis absoluta), di valore più teorico che pratico, in quanto consiste in un atto materiale posto in essere da un individuo di tale entità da sostituirsi totalmente a quello dell’altro soggetto. L’esempio di scuola è quello di Tizio che con forza afferra la mano di Caio, realizzando la sottoscrizione del contratto per conto suo. In questa casistica, i cui riscontri pratici sono rari, il negozio è ritenuto radicalmente nullo.

L’altro tipo, che maggiormente interessa in questa sede, è la violenza psichica (vis psichica), che consiste nella minaccia di un male ingiusto (non, quindi, la minaccia di far valere un proprio legittimo diritto) specificamente finalizzata alla stipulazione di un contratto. In questo caso, poiché al momento della stipula del contratto la volontà del contraente, per quanto condizionata, sussiste, il regime applicabile sarà quello dell’annullabilità, come per gli altri vizi della volontà.

La minaccia deve avere un’intensità tale da condizionare una persona di media diligenza, mostrando dunque una sua concretezza. Inoltre il male ingiusto può riguardare non solo il contraente stesso, ma anche il coniuge, un discendente, un ascendente o i rispettivi beni; vengono considerate rilevanti anche le minacce ad altre persone, ma in questo caso si valuterà nel caso concreto l’efficacia della minaccia (art. 1436 c.c.). Inoltre in questo caso, vista la maggiore antigiuridicità della condotta, è rilevante anche la violenza che proviene da un terzo e non solo da uno dei contraenti, anche quando questi sia ignaro della violenza stessa.

L’art. 1437 c.c. specifica, inoltre, che non è sufficiente a causare l’annullamento del contratto il timore reverenziale, inteso come rispetto o reverenza nei confronti di persone che si ritengo o percepiscono come particolarmente autorevoli.