Il Diritto di proprietà
La proprietà riveste un ruolo preminente fra i diritti reali previsti dal nostro ordinamento, godendo di tutela costituzionale ai sensi dell’art. 42 della nostra Costituzione. Solitamente si distingue dagli altri diritti reali in quanto viene definito come ius in re propria, contrapposto ai c.d. ius in re aliena. Nonostante vi sia una concezione comune piuttosto condivisa della proprietà, una più attenta analisi giuridica dell’istituto rivela come sia difficile inquadrare tale istituto in maniera chiara ed univoca. Il legislatore del ’42 si pose sin dal principio l’obiettivo di riunire sotto un unico concetto le varie anime della proprietà, partendo da quella pubblica per arrivare a quella privata, senza dimenticare la proprietà dei beni ecclesiastici. Come si vedrà a breve, questa varietà emerge tuttora nelle diverse declinazione della proprietà nel nostro ordinamento.
Prima di entrare nel merito dei poteri e delle caratteristiche che contraddistinguono la proprietà, è bene segnalare come vi sia un ulteriore profilo di criticità nel ricerca un’unitarietà della proprietà fra legislazione nazionale e comunitaria. Nella nostra Costituzione la proprietà riveste un ruolo relativamente minore rispetto a quello assurto nell’impostazione ottocentesca, che portò lo Statuto Albertino a definirla “inviolabile”. Oltre a venir meno tale aggettivazione, la proprietà non viene ricompresa né fra i princìpi fondamentali (i primi dodici articoli della Carta Costituzionale, per intenderci) né fra i successivi diritti di libertà di cui agli artt. 13 ss., bensì viene posta nel titolo che si occupa di disciplinare i rapporti economici (artt. 42-44 Cost.). Diversamente, la Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea colloca il diritto di proprietà nel capitolo dedicato alle libertà, recuperando un’impostazione più classica e ponendo la proprietà fra i diritti fondamentali dell’uomo. Questa differente impostazione crea ulteriori conflitti interpretativi che traspaiono dai diversi approdi giurisprudenziali interni e comunitari inerenti la proprietà, i suoi modi d’acquisto e il suo giusto indennizzo in caso di espropriazione dei beni; problematiche non solo teoriche ma estremamente pratiche.
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POTERI E CARATTERI
In questo quadro di incertezza è bene risalire a quelle che sono le fondamenta del diritto di proprietà per come viene inteso nel nostro ordinamento interno. La norma di riferimento in materia, l’art. 832 c.c., delinea quelli che sono i poteri di cui dispone il proprietario di un bene, riconducibili principalmente:
– al potere di godimento del bene, cioè quello di trarre (direttamente o indirettamente) qualunque utilità dal proprio bene;
– al potere di disposizione del bene, dal momento che il proprietario può liberamente decidere di cedere il bene (a titolo oneroso o gratuito) oppure di concedere ad un terzo altro diritto reale sullo stesso.
Sempre dalla norma in esame emergono i due caratteri di questi poteri, quelli dell’assolutezza e dell’esclusività. Questi termini, tuttavia, raramente possono essere interpretati nella loro pienezza, a fronte di diverse limitazioni che il nostro ordinamento impone a tale istituto. Il richiamo non è solo allo stesso art. 832 cc, che fa esplicito riferimento all’applicabilità di limiti e all’osservanza di obblighi al diritto di proprietà, ma anche (e soprattutto) all’art. 43 Cost. che, prevedendo l’espropriazione e l’indennizzo, costituzionalizza un ulteriore limite alla portata delle menzionate assolutezza ed esclusività. La pienezza di queste ultime può ritenersi sussistente principalmente per i c.d. beni personalissimi.
Per altri tipi di beni emergono limitazioni più o meno invasive e condizionanti il diritto di proprietà; in tal senso, esempio lampante è la proprietà di beni di interesse storico o di valore artistico, i cui poteri di godimento e di disposizione subiscono delle restrizioni tali da ritenere difficile che l’istituto sia il medesimo che regola la proprietà di altri tipologie di beni.
Riemergono in questa occasione le diverse anime che compongono il diritto di proprietà, le cui differenze sostanziali portano alcuni a ritenere più corretto parlare di diritto delle proprietà.
Al di là di quelli che sono i tratti dei poteri derivanti dalla proprietà, i suoi caratteri tipici sono normalmente riconducibili in tre elementi:
– l’imprescrittibilità (con la significativa eccezione in materia di usucapione);
– la perpetuità, ossia l’impossibilità di configurare una proprietà temporanea, nonostante nel nostro ordinamento siano state rilevate alcune eccezioni alla regola, come quella del diritto di superficie o alla proprietà trasferita a terzi in forza di un contratto con termine iniziale;
– l’elasticità, ossia la capacità del diritto di proprietà di riespandersi automaticamente nel momento in cui vengono meno concomitanti diritti reali sul medesimo bene, che ne limitavano la portata.
MODI DI ACQUISTO DELLA PROPRIETÀ
I modi di acquisto della proprietà si dividono principalmente in due macro-categorie:
– quelli a titolo derivativo, in cui vi è una successione nel medesimo diritto (Tizio acquista la proprietà di un bene da Caio);
– quelli a titolo originario, in cui la proprietà si acquisisce in forza di un diritto nuovo che non preesiste al rapporto fra res e nuovo proprietario.
Rientrano nella categoria degli acquisti a titolo derivativo:
– il contratto;
– la successione mortis causa;
– l’espropriazione;
– la vendita forzata dei beni del debitore.
Quanto agli acquisti a titolo originario, rivestono un ruolo di primo piano il possesso di beni mobili ex art. 1153 c.c. e l’usucapione ex artt. 1158 ss. c.c., la cui trattazione verrà approfondita nel seguente paragrafo dedicato al possesso (i cui caratteri devono essere preliminarmente analizzati per comprendere appieno la configurabilità degli istituti in questione). Quanto agli altri acquisti a titolo originario, si ricordano:
– l’occupazione (artt. 923 ss. c.c.), vale a dire la presa di possesso di un bene mobile che o non appartiene a nessuno oppure è abbandonato (si parla, rispettivamente, di res nullius e res derelictae), istituto non applicabile né ai beni immobili né ai beni del patrimonio indisponibile dello Stato (con alcune eccezioni inerenti la fauna selvatica);
– l’invenzione (artt. 927 ss. c.c.), che si configura quando una cosa smarrita, di cui non si conosce il proprietario, viene consegnata al sindaco del luogo del ritrovamento. Se, trascorso un anno, il proprietario non reclama il bene, colui che lo ha ritrovato ha diritto alla proprietà dello stesso (diversamente, deve essergli comunque corrisposto un premio dal proprietario);
– l’accessione (artt. 934 ss. c.c.), che consiste nella stabile incorporazione di due beni appartenenti a proprietari diversi. L’accessione può essere: 1) di mobile ad immobile, con la quale di norma il proprietario del suolo che diventa proprietario di un bene mobile su di esso costruito; 2) di immobile ad immobile, vale a dire i casi di alluvione (fondo rivierasco accresciuto dall’azione naturale dell’acqua corrente) ed avulsione (una parte di un fondo rivierasco si stacca e si unisce ad una altro fondo a causa dell’azione dell’acqua corrente); 3) di mobile a mobile, configurabile nei casi di unione o commistione (beni che diventano un tutt’uno di proprietà comune dei proprietari originari dei singoli beni, a meno che una cosa non sia preponderante da un punto di vista funzionale o del valore) e di specificazione (un bene nasce dall’utilizzo della materia di un soggetto e dal lavoro di un altro; il proprietario si ricaverà a seconda di quale di questi due elementi sia prevalente nella realizzazione della cosa nuova).
AZIONI A TUTELA DELLA PROPRIETÀ
Il nostro ordinamento fornisce tutta una serie di azioni esperibili a tutela della proprietà, che differiscono nei loro presupposti tanto oggettivi quanto soggettivi. Queste azioni sono note come azioni petitorie e saranno analizzate di seguito.
Azione di rivendicazione (art. 948 c.c.)
Questa azione può essere esperita solamente da chi si dichiari proprietario di un bene di cui però non ha il possesso al momento della proposizione dell’azione stessa. Le finalità di questa azione sono due: da un lato si vuole vedere riconosciuto il diritto di proprietà su un determinato bene, dall’altro si vuole tornare in possesso dello stesso. Naturalmente l’attore dovrà dimostrare di essere legittimamente proprietario del bene, provando la legittima titolarità del proprio diritto. Se la prova non appare gravosa in caso di acquisti a titolo originario, più complicato appare dimostrare il proprio acquisto a titolo derivativo: in questo caso, infatti, sarebbe necessario provare non solo l’esistenza e la validità del proprio titolo d’acquisto, ma anche quello di tutti i precedenti proprietari del bene. Un onere probatorio di questo tipo si risolverebbe in una probatio diabolica che sarebbe difficilmente accettabile nel nostro ordinamento, motivo per il quale sono stati previsti un paio di correttivi a questa disposizione. Infatti, per dimostrare la titolarità della proprietà di un bene sarà sufficiente dimostrare di soddisfare i requisiti richiesti dalla regola del possesso vale titolo ex art. 1153 c.c. (per i beni mobili) o da quella dell’usucapione (per i beni immobili), rendendo più agevole la prova per la parte attrice.
L’azione è imprescrittibile.
Azione di mero accertamento
A differenza dell’azione di rivendicazione, l’azione di mero accertamento (riconosciuta dalla giurisprudenza) non è finalizzata a riottenere anche il possesso del bene su cui ricade il diritto di proprietà, ma ha quale unico scopo quello di accertare la proprietà nel caso in cui sia sorta una situazione di incertezza circa il diritto controverso. Quanto all’onere probatorio, valgono i medesimi princìpi illustrati in materia di azione di rivendicazione.
Azione negatoria (art. 949 c.c.)
In alcuni casi può accadere che ad essere controverso non è il diritto di proprietà sul bene, quanto piuttosto un diritto reale altrui che ricade sullo medesimo bene. Il suo proprietario, dunque, può avere interesse a dimostrare che il suo diritto di proprietà non sia limitato da un diritto altrui. Per fare ciò si ricorre proprio all’azione negatoria. Nonostante il proprietario debba comunque dimostrare il proprio diritto di proprietà, l’onere della prova più gravoso ricade sul convenuto, che dovrà dimostrare la sussistenza del diritto reale contestato dall’attore.
Azione di regolamento dei confini (art. 950 c.c.)
Anche in questo caso, non è il diritto di proprietà ad essere contestato. Questa azione è esperibile quando vi sia un dubbio circa i confini di due fondi limitrofi, la cui precisa delimitazione è l’oggetto dell’azione ex art. 950 c.c.
Azione per apposizione di termini (art. 951 c.c.)
A differenza di quanto detto nel paragrafo precedente, il presupposto per agire in giudizio non è l’incertezza dei confini di fondi limitrofi, che in questo caso sono certi e ben definiti. La richiesta in questo caso è semplicemente quella di far apporre simboli o segni lapidei che delimitino i confini di due fondi laddove non vi siano o non siano più riconoscibili.
POSSESSO (ART. 1140 C.C.)
Se per un giurista la distinzione fra proprietà e possesso risulta elementare, per chi non ha una formazione giuridica questi due concetti sono oggetto di equivoci più spesso di quanto non si creda. Per questo motivo, prima di trattare gli altri diritti reali di godimento, è opportuno analizzare la nozione di possesso, utile anche per precisare meglio alcuni argomenti rimasti in sospeso nella precedente voce dedicata alla proprietà. A differenza di quest’ultima, infatti, il possesso non è un diritto, bensì una situazione di fatto legata all’esercizio del diritto di proprietà o di altro diritto reale su un certo bene, da cui il nostro ordinamento fa discendere determinati diritti e vantaggi.
Gli elementi costitutivi del possesso sono due, uno oggettivo e l’altro soggettivo: da un lato il corpus, vale a dire la materiale disponibilità della cosa, che permette di esercitare il proprio potere sulla stessa; dall’altro l’animus possidendi, ossia la volontà di relazionarsi col bene in quanto proprietario, esercitando dunque su di esso tutti i poteri che discendono dal diritto di proprietà. Tale secondo elemento soggettivo diventa rilevante soprattutto nel momento in cui si debba distinguere il possesso da un’altra situazione di fatto tutelata dal nostro ordinamento, vale a dire la detenzione. Se, infatti, gli istituti sono accomunati dal medesimo elemento oggettivo del corpus, differiscono per quello soggettivo. Laddove nel possesso vi è l’animus possidendi, nella detenzione vi è l’animus detinendi, un elemento soggettivo diverso in quanto la relazione fra il detentore e il bene non è la medesima che discende dal diritto di proprietà; il detentore gode e dispone del bene, ma tenendo a mente i limiti derivanti dagli altri diritti che ricadono sul medesimo bene (l’esempio di scuola, per inquadrare la detenzione, è quello della relazione di fatto che intercorre fra conduttore e immobile locato).
La perdita di uno di questi due elementi (corpus ed animus) determina la perdita del possesso. Quanto alla perdita del corpus, è bene precisare come questa debba ritenersi sussistere non in caso di un temporaneo oppure occasionale distacco fisico della cosa, quanto piuttosto nel caso in cui vi sia una irreperibilità o una irrecuperabilità definitiva del bene.
La detenzione, inoltre, presenta profili di diversità, che è necessario conoscere poiché da essi può dipendere la legittimità ad agire nel caso di determinate azioni possessorie. In particolare, si distingue fra:
– detenzione qualificata, quando la disponibilità materiale del bene è stata ottenuta nell’interesse proprio (c.d. detenzione qualificata autonoma) o nell’interesse altrui (c.d. detenzione qualificata non autonoma);
– detenzione non qualificata, quando la disponibilità materiale del bene è stata ottenuta meramente per ragioni di servizio, di lavoro o di ospitalità.
Allo stesso modo anche il possesso differisce sotto alcuni profili fondamentali per l’applicazione di determinati istituti. Innanzitutto è necessario distinguere fra possesso legittimo ed illegittimo, in forza o meno del titolo da cui discende il diritto di proprietà. Proprio questa seconda categoria presenta i profili di maggiore complessità, poiché vi sono tutele diverse a seconda che il possesso sia di buona fede, di mala fede o vizioso (quando sia violento). Solo nel primo caso, come vedremo, il possessore sarà comunque tutelato, a patto che la sua erronea convinzione di essere titolare non dipenda da colpa grave (per un errore inescusabile). In materia di possesso la buona fede si presume iuris tantum, perciò non spetterà al possessore dimostrarla, quanto a chi contesta il possesso quello di dimostrare che vi sia mala fede nel possesso. Nella disciplina, come spesso accade, il legislatore ha voluto accordare una tutela significativa alla situazione di fatto.
A proposito della legittimità del possesso, bisogna inoltre distinguere i diritti che derivano dal solo fatto del possesso (il c.d. ius possessionis, da cui discendono le c.d. commoda possessionis), che prescindono dalla legittimità dello stesso, da quelli che spettano a chi dovrebbe avere legittimamente il possesso di un determinato bene (c.d. ius possidendi). Nella prima categoria rientrano il possesso vale di titolo ex art. 1153 c.c. e l’usucapione; in questi casi, infatti, non è importante il titolo in forza del quale si è in possesso della cosa su cui si matura il proprio diritto (che potrebbe essere anche illecito) ma è il fatto stesso del possesso, che risponda a determinati requisiti (che illustreremo a breve), a far maturare i diritti in questione. Nel secondo gruppo, quello dello ius possidendi, rientrano tutti quei diritti che permettono di rivendicare il possesso di un determinato bene, legati principalmente alle c.d. azioni possessorie.
Da questa ulteriore distinzione emerge una volta di più come il legislatore abbia voluto valorizzare la semplice situazione di fatto, la cui esistenza non può essere ignorata per il fatto che non sussistano titoli validi per il possesso; se la situazione di fatto fosse completamente ignorata, il rischio sarebbe quello di rendere più complessa la circolazione dei beni nel nostro sistema economico. Allo stesso tempo, nel gioco dei pesi e dei contrappesi, non si può non fornire una tutela a chi avrebbe titolo a possedere legittimamente il bene.
L’ACQUISTO DEL POSSESSO
Così come per l’acquisto della proprietà, anche per quello del possesso si distingue fra acquisto in modo originario e acquisto in modo derivativo. Nel primo caso l’impossessamento avviene senza che vi sia la volontà del precedente possessore (eventuale) o addirittura contro di essa. Nel secondo, invece, vi è la consegna (c.d. traditio) della cosa da parte del precedente possessore a quello nuovo; traditio che può essere sia materiale che simbolica, a seconda del tipo di bene (pertanto, la consegna di un immobile non può che avvenire simbolicamente, magari con la consegna delle sue chiavi).
Può anche avvenire che l’impossessamento avvenga non a seguito del mutamento della situazione materiale del bene, bensì quanto ad un mutamento dell’animus con cui ci si relaziona con la cosa. Questi casi di traditio ficta sono riconducibili a due fattispecie:
– traditio brevi manu, caso in cui il detentore di un bene ne acquista il possesso (il conduttore di un appartamento che lo acquista e ne diventa proprietario);
– costituto possessorio, attraverso il quale il possessore diventa il detentore del bene (il proprietario di un immobile lo cede ad un altro soggetto, che a suo volta glielo concede in locazione).
MODI DI ACQUISTO DELLA PROPRIETÀ MEDIANTE IL POSSESSO
Come anticipato nel capitolo precedente, dal possesso di un bene possono discendere diversi modi di acquisto della cosa a titolo originario, che si differenziano anzitutto per il tipo di bene di cui si detiene il possesso e di cui si vuole acquistare la proprietà. Per i beni mobili si potrà applicare la regola del possesso vale titolo ex art. 1153 c.c., mentre per i beni immobili si potrà ottenere la proprietà del bene mediante usucapione.
Possesso vale titolo (art. 1153 c.c.)
La tutela delle situazioni giuridiche copre principalmente i casi in cui si debba salvaguardare il proprio diritto di proprietà con le c.d. azioni petitorie. Tuttavia, come detto, il nostro ordinamento non può ignorare le semplici situazioni di fatto; diversamente, non solo si avrebbe un rallentamento della circolazione dei beni ma si verrebbe a creare una crepa nel principio di certezza dei traffici giuridici che ispira il nostro ordinamento. La regola del possesso vale titolo (art. 1153 c.c.) è la massima espressione di questo principio; un istituto che, oltre a tutelare una determinata situazione di fatto, costituisce una forte mitigazione dell’onere probatorio in campo a chi debba dimostrare la validità del proprio diritto di proprietà, per la quale è sufficiente provare la sussistenza dei requisiti ex art. 1153 c.c. (come detto qui).
In forza del possesso vale titolo, dunque, un soggetto può acquistare a titolo originario la proprietà di un bene mobile (e non anche mobili registrati, universalità di mobili e immobili) anche da chi non ne è legittimo proprietario, a patto che sussistano determinati elementi:
– l’immissione nel possesso del bene attraverso la traditio;
– la sussistenza di un titolo astrattamente idoneo al trasferimento della proprietà;
– la buona fede del possessore, che deve sussistere solamente al momento della traditio e non anche dopo, pur essendo necessario che l’ignoranza circa la qualità del proprietario apparente non dipenda da colpa grave dell’acquirente.
L’importanza della traditio è rimarcata ulteriormente dall’art. 1155 c.c. Questa previsione prende in considerazione il caso in cui un bene venga alienato a più soggetti in forza di più contratti successivi; in tale circostanza l’ordinamento accorda preferenza all’acquirente che in buona fede abbia per primo conseguito il possesso del bene, anche se il suo titolo dovesse risultare posteriore rispetto a quello di altri acquirenti. Anche da questa norma, dunque, emerge la volontà di voler tutelare ulteriormente la situazione di fatto piuttosto che la situazione giuridica derivante dal titolo d’acquisto.
Usucapione (artt. 1158 ss. c.c.)
L’usucapione è l’altro istituto che permette di ottenere la proprietà (a titolo originario) o altro diritto reale conseguentemente all’impossessamento del bene. In questo caso, tuttavia, i requisiti cambiano sensibilmente rispetto a quelli richiesti per l’istituto ex art. 1153 c.c. appena illustrato. Presupposti per la sua configurazione sono:
– il possesso del bene, che in questo caso può essere sia in buona fede che in mala fede;
– la continuità del possesso, che la legge presume esserci nel lasso di tempo compreso fra due date in cui il possesso è stato dimostrato (c.d. presunzione del possesso intermedio ex art. 1142 c.c.);
– la non interruzione del possesso, che presuppone non intervenga un’interruzione del possesso, sia essa “naturale” (trasferimento, abbandono o smarrimento del bene) o “civile” (proposizione di domanda giudiziale contro il possessore o riconoscimento, da parte di quest’ultimo, del diritto altrui);
– il decorso di un determinato lasso di tempo.
Proprio quest’ultimo elemento si differenzia in ordine al tipo di usucapione. Da un lato, infatti, vi è l’usucapione ordinaria, che richiede il decorso di un lasso di tempo di vent’anni per il perfezionamento dell’istituto (a cui si può sommare il tempo dei propri danti causa).
Dall’altro, un maggior approfondimento lo merita l’usucapione abbreviata, che richiede un decorso di tempo decisamente minore in forza però di presupposti più stringenti.
Pertanto, si avrà usucapione abbreviata per:
– beni mobili registrati (tre anni), fondi rustici (quindici anni, cinque per le piccole proprietà rurali) e immobili (dieci anni), per i quali sono necessari un titolo idoneo, l’acquisto in buona fede del possesso e la trascrizione del titolo;
– universalità di mobili (dieci anni), per le quali sono necessari un titolo idoneo e l’acquisto del possesso in buona fede;
– mobili non registrati (dieci anni), per i quali è richiesta semplicemente l’acquisto del possesso in buona fede e non anche il titolo (diversamente, si configurerebbe l’istituto ex art. 1153 c.c.).
È bene precisare che l’usucapione si perfeziona ex lege e non è necessaria una pronuncia giudiziale. Per questo motivo, nel caso vi sia interesse ad un accertamento giudiziale circa la sussistenza dell’intervenuta usucapione, il giudice pronuncerà una sentenza meramente dichiarativa e non costitutiva di un nuovo diritto non preesistente alla pronuncia.
AZIONI A TUTELA DEL POSSESSO
Così come per la proprietà, anche per il possesso sono previste delle azioni (c.d. possessorie) che tendono a tutelare solamente la situazione di fatto del possesso (e, talvolta, della detenzione) e non anche la legittimità della proprietà, come accade con le azioni petitorie. Anzi, è bene sottolineare come questi due tipi di azioni talvolta non siano cumulabili. Nel caso di proposizione di un’azione possessoria, il convenuto non potrà promuovere contestualmente un’azione petitoria (art. 705 c.p.c.), salvo il caso in cui provi che il suo mancato esperimento gli rechi un pregiudizio irreparabile (Corte Costituzionale 25/1992). Al contrario, invece, si potrà esperire un’azione possessoria nel caso in cui sia proposto un giudizio petitorio.
Prima di passare in rassegna i diversi tipi di azione possessoria, è bene sottolineare come questi sono esperibili solamente una volta che l’azione di spossessamento si sia esaurita. Se, invece, lo spossessamento illecito è ancora in corso, il nostro ordinamento accorda l’autotutela (nella forma dell’autodifesa) al possessore, potendo quest’ultimo utilizzare la forza per difendere il proprio possesso da un terzo che cerchi di farlo venir meno o di turbarlo.
Azione di reintegrazione (art. 1168 c.c.)
Nel caso di spoglio violento o clandestino, il nostro ordinamento fornisce lo strumento dell’azione di reintegrazione (o spoglio) ex art. 1168. Soggetto legittimato attivamente a proporre questo tipo di azione è non solo qualunque possessore (legittimo o illegittimo) del bene, ma anche il detentore, a patto che non sia un detentore non qualificato. Una differenza sostanziale si pone fra detentore qualificato autonomo e non autonomo, in quanto solo il primo potrà proporre azione anche nei confronti del possessore, mentre il secondo potrà farlo solamente nei confronti dei terzi. Fra i legittimati passivi, inoltre, vi è non solo l’autore materiale dello spoglio (c.d. spoliator), ma anche l’“autore morale” dello spoglio e colui che attualmente è nel possesso (o nella detenzione) del bene.
Analizzati i profili soggettivi dell’azione, è necessario analizzare quelli oggettivi, con particolare riguardo alla nozione di spoglio prevista dal nostro ordinamento. Questa va intesa come qualunque privazione duratura del possesso o come una modifica della situazione di fatto che infici il possesso stesso. Si capisce, dunque, che lo spoglio può essere sia totale che parziale, a seconda che il godimento sia totalmente o parzialmente precluso. Quanto alla “violenza” e alla “clandestinità” dello spoglio, la giurisprudenza le intende in senso piuttosto ampio, ritendo che sussistano ogni qualvolta lo spoglio sia posto in essere contro la volontà (espressa o presunta) del possessore o del detentore.
Ciò non sembra però essere sufficiente, in quanto viene richiesto un ulteriore elemento soggettivo dello spoliator affinché sussistano tutti i requisiti richiesti dall’art. 1168 c.c., vale a dire il c.d. animus spoliandi, vale a dire la volontà o la consapevolezza dell’autore di compiere lo spoglio e di ledere il possesso altrui.
L’azione deve essere esperita, a pena di decadenza, entro un anno dallo spoglio o, se questo è clandestino, dalla sua scoperta.
Azione di manutenzione (art. 1170 c.c.)
L’azione di manutenzione è uno strumento con requisiti decisamente più restrittivi rispetto all’azione di reintegrazione. Infatti in questo caso è legittimato attivamente solamente il possessore di un immobile, di un’universalità di beni o di un diritto reale su un immobile, a condizione che il suo possesso duri in maniera continuata e non interrotta da almeno un anno. Quanto ai profili di legittimazione passiva, si può esperire l’azione sia contro l’autore materiale che contro quello morale dello spoglio o delle molestie-turbative.
Proprio da un punto di vista oggettivo vi sono sensibili differenze, in quanto l’azione è sì volta a reintegrare il possessore da uno spoglio, che però in questo caso non è né violento né clandestino. Inoltre l’azione può essere esperita semplicemente per far cessare molestie o turbative del proprio possesso, da intendersi come una compressione o un disturbo del proprio possesso. È bene sottolineare che, se in sede giudiziale si richiede la cessazione di molestie o turbative, non si può ottenere il reintegrazione del possesso, in quanto si eccederebbe il petitum della domanda. Diversamente, proprio perché le molestie costituiscono un minus rispetto allo spoglio, sarà possibile ottenere la cessazione della turbativa laddove sia stato richiesto il reintegrazione del possesso.
Come per lo spoglio ex art. 1168 c.c. è richiesto l’animus spoliandi, in questo caso è necessaria la consapevolezza di turbare il possesso altrui (c.d. animus turbandi).
Anche in questo caso il termine di decadenza è di un anno dal sofferto spoglio o dall’inizio delle molestie.
Azione di nuova opera (art. 1171 c.c.)
Con questa azione il proprietario, il titolare di un diritto reale e il possessore di un bene possono denunciare l’inizio di una nuova opera (scavi, costruzioni), qualora si tema che da tale opera possa derivare un pregiudizio nel godimento dei propri diritti. L’azione (che ha un’evidente funzione cautelare) si può attivare entro un anno dall’inizio della nuova opera e sempre che questa non sia terminata. Legittimato passivo è dunque colui che ha il diritto reale sul bene (o il suo possesso) da cui deriverebbe il pregiudizio.
Azione di danno temuto (art. 1172 c.c.)
Nel caso in cui si ritenga che il pregiudizio nel godimento del proprio bene possa derivare non da una nuova opera, ma da un edificio o una costruzione già esistente, il proprietario o il possessore del bene il cui godimento rischia di essere viziato può esperire l’azione ex art. 1172 c.c. affinché siano prese tutte le precauzioni atte a prevenire il danno. Anche questa azione, come quella di cui all’art. 1171 c.c., ha una finalità cautelare.
DIRITTI REALI DI GODIMENTO
Come già detto in materia di proprietà, i diritti reali si contrappongono da quest’ultima perché sono ius in re aliena, ossia dei diritti che ricadono su un bene altrui. Di fatto costituiscono un limite all’esercizio del diritto di proprietà (che è ius in re propria), che potrà essere esercitata tenendo conto dei diritti reali che ricadono sul medesimo bene.
Ci sono due tipi di diritti reali: quelli di godimento, che limitano il potere di godimento che il proprietario ha su un suo bene, e quelli di garanzia, che comprimono il potere di disposizione del proprietario sul bene. In questa sezione si tratteranno esclusivamente i primi.
Usufrutto (artt. 972 ss. c.c.)
L’usufrutto è diritto reale in forza del quale si ha il diritto di godere della cosa e trarre da essa tutte le utilità possibili, oltre a poter trattenere tutti i suoi frutti (sia naturali che civili). Oltre a ciò, l’usufruttario ha il potere di disposizione (mediante atto inter vivos) sia del diritto stesso di usufrutto che del godimento del bene oggetto dell’usufrutto.
All’usufruttuario fanno capo anche degli obblighi, su tutti quello di rispettare la “destinazione economica” della cosa (come sancito dall’art. 981 c.c.), non potendo mutare lo scopo per il quale l’area o l’oggetto di usufrutto sono destinate (un orto, ad esempio, non può diventare un parco). Dovrà inoltre utilizzare la diligenza del buon padre di famiglia nel godere del bene, oltre a dover fare l’inventario e prestare garanzia a presidio dell’osservanza degli obblighi di conservazione e restituzione del bene. Inoltre si deve far carico di tutte le spese inerenti la cosa, ad eccezione di quelle per le riparazione straordinarie, che spettano al nudo proprietario. Se tali obblighi non vengono rispettati, il nudo proprietario potrà agire con l’azione di risarcimento del danno (laddove, ovviamente, riesca a dimostrare il danno).
Caratteristica imprescindibile dell’usufrutto è la sua temporaneità. Se l’usufrutto è concesso ad una persona fisica, in mancanza di diversa pattuizione, si presume che la durata corrisponda a quella della vita dell’usufruttuario. Se l’usufrutto è concesso a più persone, questo dura fintanto che resta in vita il più longevo dei contitolari, che col venir meno degli altri usufruttuari vede accrescere il proprio diritto di usufrutto.
Se, invece, l’usufrutto è costituito a favore di una persona giuridica, la sua durata non può essere superiore ai trent’anni.
Oltre a poter essere acquisito tramite atto negoziale e provvedimento del giudice, vi sono alcuni casi in cui l’usufrutto viene acquistato ex lege. Su tutti, si ricorda il caso di cui agli artt. 324 ss. c.c., che disciplinano l’usufrutto legale che spetta ai genitori sui beni del figlio minore.
Quanto ai modi di estinzione dell’usufrutto, questi sono:
– la scadenza del termine o la morte dell’usufruttario;
– la prescrizione estintiva ventennale;
– la riunione, in capo alla stessa persona, sia dell’usufrutto che della nuda proprietà (c.d. consolidazione);
– il perimento totale della cosa;
– l’abuso del diritto da parte dell’usufruttuario;
– la rinunzia.
Oggetto di usufrutto possono essere tutti i tipi di bene, ad eccezione di quelli consumabili. In questo caso, si configurerà una situazione giuridica definita come quasi usufrutto, in forza del quale la proprietà dei beni oggetto di quasi usufrutto passa al quasi usufruttuario, che ha poi l’obbligo di restituire non gli stessi beni, ma la stessa quantità o lo stesso valore dei beni ricevuti.
Uso (art. 1021 c.c.) e abitazione (art. 1022 c.c.)
Il diritto d’uso consente al suo titolare di servirsi di un bene e di trarne gli eventuali frutti nei limiti dei bisogni propri e della propria famiglia.
Il diritto di abitazione ha un contenuto estremamente simile, poiché permette di abitare un immobile limitatamente ai bisogni propri e della propria famiglia.
Entrambi sono diritti dal forte carattere personale, tanto da non poter essere ceduti a terzi.
Come per l’usufrutto (la cui disciplina viene applicata in quanto compatibile), vi sono casi in cui i diritti d’uso ed abitazione sono previsti ex lege. Il più noto è quello ex art. 540, co. 2, c.c., in forza del quale il coniuge superstite ha diritto di abitazione nella casa coniugale.
Superficie (art. 952 c.c.)
Quando si parla di diritto di superficie, si fa riferimento a due diversi tipi di diritto:
– la concessione ad aedificandum, ossia il diritto di costruire su suolo altrui un’opera di cui si acquista la proprietà (separata da quella del suolo) una volta terminata;
– proprietà superficiaria, ossia l’acquisto della proprietà di una costruzione già esistente, che rimane separata dalla proprietà del suolo, che rimane al concedente.
In altre parole, il superficiario ottiene la totale disponibilità della costruzione (già esistente o futura), di cui può disporre liberamente, potendo alienarla o darla in godimento a terzi.
Quanto alla durata della superficie, questa può essere perpetua o a termine. In quest’ultimo caso, la proprietà della costruzione passa al proprietario del suolo gratuitamente (salvo ovviamente patto contrario).
La scadenza del termine costituisce uno dei modi di estinzione del diritto di superficie, insieme alla rinunzia, alla prescrizione ventennale (ma solo in caso di concessione ad aedificandum) e di confusione, ossia quando un medesimo soggetto ha la superficie e la nuda proprietà in capo a sé. Non costituisce invece estinzione della superficie il perimento della costruzione, in quanto il diritto di superficie – come detto – va oltre la sua semplice estrinsecazione fisica, rappresentata dall’immobile. Anche in questo caso, ovviamente, la libertà negoziale delle parti permette di derogare a tale principio.
Quanto alle tutele esperibili dal superficiario, essendo il suo diritto assimilabile a quello di un diritto di proprietà, le azioni a sua disposizione sono le petitorie e possessorie che spettano al normale proprietario di un bene.
Enfiteusi (art. 957 c.c.)
L’enfiteusi è un diritto reale su beni immobili che garantisce all’enfiteuta (ossia colui in favore del quale è costituita) il medesimo potere di godimento (c.d. dominio utile) che spetterebbe al proprietario. I vincoli che l’enfiteuta ha sono quelli di pagare un canone periodico al nudo proprietario (ossia il concedente) e, soprattutto, quello di migliorare il fondo su cui ricade il diritto. È bene precisare che, a differenza di quanto visto per l’usufrutto, la destinazione del fondo può anche essere mutata, a patto che il bene non venga deteriorato. L’enfiteusi può essere perpetua o a termine (comunque non inferiore a 20 anni) e può essere acquistata mediante contratto, testamento oppure usucapione.
L’enfiteuta dispone del c.d. potere di affrancazione, che gli permette di acquistare la piena proprietà del fondo mediante il pagamento di una determinata somma di denaro al nudo proprietario. Quest’ultimo, a sua volta, può fare domanda di devoluzione ex art. 972 c.c. nel caso in cui l’enfiteuta non adempia ad uno dei suoi obblighi, vale a dire quello di migliorare il fondo, di non deteriorarlo e di pagare il canone (purché sia in mora nel pagamento di due annualità).
SERVITU’ PREDIALI (art. 1027 c.c.)
Le servitù prediali sono dei diritti reali in forza dei quali viene istituito un “peso” su un fondo (c.d. fondo servente) per garantire un’utilità di qualunque tipo ad un altro fondo (c.d. fondo dominante); non è esclusa la possibilità che la servitù sia reciproca, con entrambi i fondi che diventano allo stesso tempo dominanti e serventi. La servitù fa ricadere sul proprietario del fondo servente un dovere di non facere o di pati, secondo il principio servitus in faciendo consistere nequit; nel caso siano richieste delle spese per la conservazione delle servitù (come, ad esempio, per acquedotti o elettrodotti) queste di regola ricadono sul proprietario del fondo dominante.
Per istituire la servitù è necessario che i due fondi appartengano a due proprietari diversi, altrimenti sarebbe impossibile instaurare il rapporto di servitù fra i due fondi (“nemini res sua servit”). Fondi che, anche se non adiacenti, devono avere una collocazione topografica che permetta all’uno di fornire utilità all’altro (il concetto di vicinitas è relativo al contenuto del diritto).
Un altro requisito essenziale è che il servizio sia prestato a favore di un altro fondo e non di una persona, perché in questo caso si esulerebbe dalla fattispecie della servitù prediale, ricadendo invece nelle c.d. servitù irregolari o personali. In quest’ultimo caso non saremmo di fronte ad un diritto reale (categoria di diritti, che ricordiamo, è a “numero chiuso”) ma ad un’obbligazione, con la sostanziale differenza che saremmo di fronte ad un diritto relativo, che produce i propri effetti solo fra le parti, e non assoluto. Rientrano fra le servitù irregolari anche le servitù aziendali, ossia quelle strumentali ad un’attività d’azienda che prescinde dal fondo sul quale viene esercitata (come, ad esempio, i casi di divieto di concorrenza). Non vanno confuse con le servitù industriali, legate ad impieghi produttivi strutturalmente legati al fondo stesso, come ad esempio una servitù di passaggio per il trasporto delle merci prodotte o una servitù per attingere a materie prime necessarie attività produttive.
La tipicità dei diritti reali non deve essere confusa con la tipicità dei diversi tipi di servitù. Se, infatti, nel nostro codice sono previste e disciplinate le c.d. servitù tipiche (in particolare quelle ex art. 1080 ss. c.c.), il nostro ordinamento ammette anche la costituzione delle c.d. servitù atipiche, il cui contenuto è diverso da quelli già contenuti nel codice civile. L’unica condizione affinché siano concesse è quella di mantenere lo schema tipico della servitù, ossia quello del fondo servente che garantisce un’utilità al fondo dominante.
L’esercizio della servitù è disciplinato dal titolo (come vedremo, contratto, testamento, sentenza, atto amministrativo) da cui sorge. In assenza, è la legge a regolarne i contenuti e le modalità di esercizio. Il principio generale dettato dall’art. 1065 c.c. è comunque quello del minimo mezzo: l’esercizio della servitù deve essere tale da generare il minor sacrificio possibile per il fondo servente. La giurisprudenza ha corredato questo principio con diversi corollari, specificando da un lato il divieto di aggravare la servitù per il proprietario del fondo dominante, e dall’altro quello di diminuire l’esercizio della stessa per il proprietario del fondo servente.
A seconda del modo in cui le servitù vengono costituite, si distinguono in:
– servitù legali o coattive, quando sono diretta attuazione di un obbligo normativo;
– servitù volontarie, quando sono istituite dalla volontà dell’uomo mediante negozio giuridico (contratto, testamento);
– per usucapione;
– per destinazione del padre di famiglia.
Servitù legali o coattive
Vi sono dei casi in cui la legge impone l’istituzione di una servitù perché, diversamente, il fondo dominante subirebbe un pregiudizio eccessivo. Allo stesso tempo al proprietario del fondo servente spetta un’indennità per il sacrificio che è costretto a subire. Esempio con cui si può comprendere meglio tale casistica è quella di un fondo a cui non si potrebbe accedere se non attraverso l’istituzione di una servitù di passaggio sul fondo confinante. Appare evidente come la mancata concessione della servitù arrecherebbe un pregiudizio insormontabile al fondo servente. In casi analoghi (che meglio vedremo a breve) il legislatore ha dunque accordato una tutela al proprietario del fondo che altrimenti sarebbe danneggiato. Tuttavia tali servitù non sono concesse solamente in caso di interclusioni assolute per il fondo dominante, ma anche quando quest’ultimo non possa ottenere un’uscita senza un eccessivo disagio o difficoltà (quando, dunque, vi è un’interclusione relativa).
Quando il fondo non è intercluso, inoltre, nonostante vi sia già una via d’accesso allo stesso, la servitù coattiva può essere concessa o in relazione al conveniente uso del fondo o ai bisogni dello stesso. In entrambe le circostanze dovranno essere fatte delle valutazioni sul caso concreto per valutare le effettive necessità e i relativi benefici per il fondo dominante.
A prescindere dal tipo di servitù, la sua istituzione deve avvenire sempre in modo da comportare il minor sacrificio possibile al fondo servente.
Quanto alla costituzione della servitù, questa può avvenire o mediante contratto, quando ovviamente il proprietario del fondo servente riconosca il diritto del proprietario del fondo dominante, oppure dinanzi al giudice mediante sentenza costitutiva (che, oltre a costituire la servitù, riconosce un’indennità al proprietario del fondo servente).
In alcuni casi specifici, inoltre, inerenti servitù necessarie per la rete del gas di utenze domestiche o aziendali (gas, luce, reti di comunicazione) è possibile richiedere la costituzione della servitù direttamente alla P.A.; in questo caso, l’atto in forza del quale si provvederà sarà di natura amministrativa.
Fra i tipi di servitù legali-coattive più diffuse, vi sono il già menzionato passaggio coattivo (artt. 1051 ss. c.c.), l’elettrodotto coattivo (art. 1056 c.c.) e l’acquedotto coattivo (artt. 1033 ss. c.c.).
Servitù volontarie
In questo caso, la servitù è costituita solamente per la volontà negoziale delle parti. Strumento principe per la sua costituzione è il contratto, che, alla luce dell’oggetto del negozio, deve necessariamente farsi per iscritto e deve essere soggetto a trascrizione per poter essere opposta a terzi.
Il contratto, però, non è l’unico strumento mediante il quale far sorgere una servitù. Questa può nascere da un testamento; anche in questo caso, sarà necessaria la trascrizione dell’accettazione per fare salva l’opponibilità a terzi.
Prima di proseguire è bene precisare come tutti i tipi di servitù possono essere istituiti mediante contratto o testamento, mentre, per le modalità che andremo a vedere da ora, è necessario che la servitù sia apparente per potersi costituire validamente. Si ha una servitù apparente quando al loro esercizio sono destinate opere visibili e permanenti (come, ad esempio, un sentiero); in tal caso la servitù ha una sua apparenza esteriore che evita qualunque possibile equivoco o dubbio circa la sua esistenza, la sua struttura e la sua modalità d’esercizio.
Diversamente, infatti, non sarebbe possibile pensare di poter ricorrere all’istituto dell’usucapione per poter costituire una servitù diversa da quella apparente. È possibile inoltre usucapire anche il modo d’esercizio della servitù (apparente), a patto che questo non sia diverso da quello previsto dal titolo da cui sorge il diritto di servitù.
Allo stesso modo solo le servitù apparenti possono essere istituite mediante la destinazione del padre di famiglia (art. 1062 c.c.). Questo particolare istituto interviene per disciplinare il caso in cui due fondi siano appartenuti ad un medesimo proprietario e, in un secondo momento, diventino di soggetti diversi. Abbiamo detto che uno dei requisiti essenziali affinché si possa costituire una servitù è che i fondi siano proprietà di soggetti diversi (“nemini res sua servit”). Tuttavia, quando i fondi appartengono al medesimo proprietario, può facilmente accadere che su di uno vi sia un peso per garantire un’utilità all’altro. In altre parole, vi sono tutti gli elementi oggettivi ma non soggettivi per poter configurare una servitù. Quando, come nel caso appena illustrato, in presenza dei requisiti oggettivi sorgano anche i requisiti soggettivi (ad esempio, dopo un contratto di compravendita), il nostro ordinamento ha previsto che automaticamente, senza bisogno di ulteriori specificazioni, venga istituita la servitù (apparente) oggettivamente esistente fra i fondi. Per evitare che ciò accada è necessario prevedere espressamente, nel titolo in forza del quale avviene l’alienazione di (almeno) uno dei fondi, che non venga costituita alcuna servitù.
Estinzione della servitù
La servitù può estinguersi per rinuncia, per confusione (i fondi diventano di un medesimo proprietario), per scadenza del termine (se la servitù ne ha uno) e per prescrizione estintiva ventennale. Non fanno estinguere il diritto di servitù né l’impossibilità di fatto di usarla né la cessazione della sua utilità.
A proposito della prescrizione estintiva ventennale occorre fare delle precisazioni, giacché il termine di prescrizione inizia a decorrere in momenti diversi a seconda del tipo di servitù. Le servitù, infatti, possono essere:
– negative, quando il proprietario del fondo dominante ha il potere di vietare determinate attività al proprietario del fondo servente, che ha un obbligo di non fare. La prescrizione decorre da quando il proprietario del fondo servente abbia violato il proprio divieto;
– affermative, quando il proprietario ha il potere di porre in essere una determinata attività, a cui corrisponde un obbligo di pati del proprietario del fondo servente, vale a dire un obbligo di tollerare l’attività altrui sul proprio fondo. Queste si dividono, a loro volta, in continue, quando l’attività dell’uomo è precedente all’esercizio della servitù (ad esempio, installo delle tubazioni per il mio acquedotto), e discontinue, in cui è l’uomo che esercita volta per volta, con la propria azione, il proprio diritto di servitù (il passaggio sul fondo altrui). Nelle prime (continue) decorre dal momento in cui viene impedito l’esercizio della servitù (ostruzione dell’acquedotto); nelle seconde, invece, dall’ultimo atto di esercizio del diritto dell’uomo.
L’interruzione del termine ventennale si può avere o mediante proposizione della domanda giudiziale o mediante riconoscimento del diritto di servitù da parte del proprietario del fondo servente.
Azione confessoria (art. 1079 c.c.)
A tutela del proprio diritto di servitù si può esperire l’azione confessoria (c.d. actio confessoria servitutis), che può essere esperita dal titolare del diritto di servitù per accertare il turbamento o l’impedimento dell’esercizio del proprio diritto per ottenere la loro cessazione e la rimessione delle cose in pristino. Ovviamente l’attore dovrà dimostrare anzitutto l’esistenza del proprio diritto di servitù e poi l’impedimento all’esercizio dello stesso.
Se si intende tutelare solo lo stato di fatto della servitù e non anche la sua titolarità, si potranno esperire le normali azioni possessorie (artt. 1168-1170 c.c.).