info@msclex.it
071 969 7023 - 071 969 6969

INVALIDITÀ, INEFFICACIA ED INESISTENZA

INVALIDITÀ, INEFFICACIA ED INESISTENZA

Affinché un negozio giuridico possa acquisire pieno valore giuridico (per poter produrre gli effetti ai quali è preposto) è necessario che sia pienamente valido. In altre parole, non deve affetto da alcun tipo di vizio; diversamente, l’atto finirebbe per essere invalido. In questa sede, prima di entrare nello specifico dei singoli vizi, è opportuno fare delle precisazioni di tipo terminologico, giacché talvolta si fa facilmente confusioni fra termini solo apparentemente sinonimi.

Quando un negozio giuridico è viziato, si dovrà fare riferimento alla macro-categoria dell’invalidità. Questa si declina in due forme, che hanno discipline molto diverse (che verranno illustrate nelle prossime sezioni): la nullità e l’annullabilità.

Non è assolutamente sinonimo di invalidità l’inefficacia. L’efficacia, infatti, non riguarda la validità del negozio, bensì la sua concreta idoneità a produrre gli effetti giuridici ai quali è preposto. Un contratto, infatti, può essere pienamente valido ma inefficace. L’esempio più immediato di ciò è il contratto sottoposto a condizione sospensiva o a termine. Parlando, invece, di negozi diversi dal contratto, si può fare riferimento al testamento validamente redatto nel periodo antecedente alla morte del testatore. L’inefficacia può essere originaria o successiva. La prima ha carattere transitorio (diversamente, si risolverebbe in una nullità), mentre la seconda può dipendere dall’impugnativa delle parti o di un terzo (si vedano la risoluzione o la rescissione).

Un’ultima categoria da tenere ulteriormente distinta dalle due appena illustrate è quella dell’inesistenza, figura non contemplata dal nostro codice civile di origine dottrinale, talvolta richiamata anche dalla giurisprudenza. Nel caso dell’inesistenza ciò che si contesta non è un semplice vizio, ma è la mancanza di un elemento senza il quale l’atto non può essere identificato secondo la categoria cui si fa riferimento. Un matrimonio senza celebrazione o un contratto senza accordo non sono semplicemente nulli, ma vengono ritenuti inesistenti. La differenza non è meramente teorica, dal momento che sono differenti le conseguenze che comporta la configurazione dell’una o dell’altra fattispecie. Se, infatti, vi sono alcuni casi in cui un negozio nullo produce effetto (come, ad esempio, il matrimonio nullo a vantaggio del coniuge in buona fede e della prole), un negozio inesistente non è mai in grado di produrre alcun effetto giuridico.

 

LA NULLITÀ (artt. 1418 ss. c.c.)

La nullità è la principale e più grave tipologia di invalidità prevista dal nostro ordinamento. Quando un negozio è nullo, questo diventa inidoneo a produrre gli effetti giuridici “tipici”, quelli per i quali si è adottato un determinato tipo negoziale.

Il codice civile indica all’art. 1418 c.c. le tipologie di nullità contemplate dal nostro ordinamento. Quella più immediata e di più facile individuazione è quella delle nullità testuali (art. 1418, co. 3, c.c.), nella quale rientrano tutti quei casi in cui la nullità è espressamente prevista dalla legge. In altre parole, nel testo della disposizione legislativa viene esplicitamente menzionata la nullità. Tale istituto viene utilizzato soprattutto nelle leggi speciali.

Il secondo tipo di nullità è quello delle c.d. nullità strutturali ex art. 1418, co. 2, c.c. In questo caso l’atto è privo di uno degli elementi essenziali del contratto indicati dall’art. 1325 c.c., ossia l’accordo, la causa, l’oggetto e (quando richiesta ad substantiam) la forma. Si parla di nullità strutturali anche nel caso di illiceità della causa o del motivo (in questo caso, il motivo deve essere comune a tutte le parti) e la mancanza dei requisiti dell’oggetto indicati dall’art. 1346 c.c. (vale a dire possibilità, liceità, determinatezza o determinabilità).

Il terzo è quello della nullità virtuale, che l’art. 1418, co. 1, c.c. prevede quando l’atto “è contrario a norme imperative”. La semplicità della formula, purtroppo, non va di pari passo con quella dell’interpretazione, dal momento che attorno a tale disposizione vi sono tuttora dubbi su cosa si debba intendere per norma imperativa. Anzitutto si può restringere l’ambito di applicazione ragionando per sottrazione ed escludendo dall’ambito applicativo di tale disposizione sia le nullità testuali che quelle strutturali. Eliminate queste due tipologie si comprende immediatamente come sia difficile rilevare fattispecie chiare a cui ricondurre le nullità virtuali. Nell’ampio dibattito dottrinale e giurisprudenziale, si valuta se la norma violata sia posta a tutela di un interesse pubblico o di un principio fondamentale dell’ordinamento. In questi casi la portata collettiva (e non semplicemente individuale) delle prescrizioni di legge va oltre la semplice dimensione negoziale e, proprio per questo motivo, è possibile che le norme imperative trascurino eventuali profili di nullità dell’atto in loro violazione. In definitiva, qualsiasi norma tuteli un interesse pubblico o un principio fondamentale dell’ordinamento e, allo stesso tempo, non preveda espressamente la nullità quale rimedio negoziale può essere ricondotta fra le norme imperative di cui all’art. 1418, co. 1, c.c.

Da ultimo vi è un tipo di nullità più recente e che non è indicato dall’art. 1418 c.c., vale a dire la nullità di protezione. Questo istituto è previsto in molti rapporti negoziali in cui vi sia uno squilibrio fra le parti, ossia quando una parte sia contrattualmente molto più forte dell’altra. Per bilanciare tali situazioni, vengono spesso previste delle nullità che possono essere fatte valere solamente dalla parte debole del negozio. Questa fattispecie è tipica, ad esempio, dei contratti bancari, in cui solamente il cliente (e non anche l’istituto di credito o l’intermediario) può far valere alcune nullità del negozio, inerenti principalmente vizi di forma e di sottoscrizione del contratto.

 

Le nullità inoltre si distinguono fra totali e parziali. Le prime affliggono l’atto nella sua interezza, mentre le seconde solamente una parte o una clausola dello stesso. In molti casi tale nullità non pregiudica la validità del resto del negozio; si pensi alle clausole vessatorie che, seppur nulle, non pregiudicano la validità del resto del contratto (art. 36 cod. cons.). Nel caso però si dimostri che la clausola dichiarata nulla fosse stata essenziale per la stipulazione del contratto, a quel punto la nullità, per quanto parziale, travolge la validità di tutto il negozio.

 

L’AZIONE DI NULLITA’ (art. 1421 c.c.)

Può accadere che un contratto nullo, inidoneo a produrre effetti giuridici, sia comunque materialmente posto in essere, In questo caso il nostro ordinamento permette di esperire il rimedio giudiziale dell’azione di nullità. Molte delle caratteristiche di questo istituto sono speculari rispetto a quelle dell’azione di annullamento, rispetto alla quale presenta numerose differenze.

L’azione di nullità è anzitutto meramente dichiarativa o di mero accertamento, in quanto la sentenza di accoglimento non modifica la situazione giuridica preesistente ma si limita ad accertarla. È imprescrittibile (art. 1422 c.c.) e, per quanto attiene la legittimazione attiva, può essere esperita non solo dalle parti del contratto, ma da chiunque ne abbia un concreto interesse; quest’ultimo deve essere provato in sede giudiziale affinché la domanda possa essere accolta.

In materia di nullità vi è una deroga molto importante al principio di corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato ex art. 112 c.p.c., dettata dalla gravità del vizio in esame: infatti anche se la nullità non viene rilevata dalle parti, il giudice può rilevarla d’ufficio.

 

Inoltre è bene precisare che per il negozio nullo non vi è alcuna possibilità di sanatoria, istituto questo che non va confuso con la conversione del negozio nullo ex art. 1424 c.c., il cui presupposto principale è che il negozio posto in essere presenti i requisiti di forma e sostanza idonei per la validità di un negozio diverso da quello concretamente sottoscritto. Di fronte ad un contratto di questo tipo si può chiedere che il negozio produca gli effetti del contratto che erroneamente è stato predisposto, a patto che si dimostri che le parti lo avrebbero comunque posto in essere nel caso in cui fossero state a conoscenza della nullità che lo affligge (circostanza, questa, piuttosto rara). Naturalmente la conversione non sarà possibile se il negozio presenta quale vizio un profilo di illiceità.

La conversione, inoltre, non deve essere confusa con la rinnovazione del negozio nullo, che si ha quando le parti concludono un nuovo negozio uguale al precedente ma privo del vizio che lo rendeva nullo. In questo caso c’è una nuova manifestazione di volontà, che invece manca nella conversione.

 

La nullità travolge tutti gli effetti che ha prodotto il contratto ex tunc, quindi sin dal momento della sua stipulazione. Vengono fatti salvi alcuni casi come quello del terzo acquirente in buona fede. Ciascuna parte ha diritto alla ripetizione della prestazione eseguita in attuazione del contratto nullo. L’art. 2035 c.c. prevede una deroga a questa regola, vale a dire quello delle c.d. prestazioni immorali (contrarie al buon costume), che non possono mai essere ripetute.

 

L’ANNULLABILITÀ (art. 1425 ss. c.c.)

Il secondo profilo di invalidità che il nostro ordinamento riconosce è quello dell’annullabilità. Si tratta di un profilo di minor gravità rispetto alla nullità e per il quale sono previsti rimedi sostanzialmente differenti.

Anzitutto sono divere le cause generali che comportano l’annullabilità di un contratto, vale a dire:

– l’incapacità legale o naturale del contraente (art. 1425 c.c.);

– i vizi della volontà, ossia errore, dolo e violenza.

Il contratto annullabile è idoneo a produrre tutti gli effetti ai quali era preposto almeno fino al momento della proposizione dell’azione di annullamento, il rimedio giudiziale che l’ordinamento prevede di fronte ad un negozio che presenta i vizi di cui sopra. Tale azione, tuttavia, ha caratteristiche speculari rispetto a quelle dell’azione di nullità. La prima differenza riguarda la legittimazione attiva, la quale ai sensi dell’art. 1441 c.c., salvo eccezioni, spetta solamente alla parte nel cui interesse l’invalidità è prevista la legge (si parla di relatività dell’azione di annullamento). Inoltre, sempre salvo eccezioni, è stabilito un termine di prescrizione di cinque anni (art. 1442 c.c.), che decorre dal momento in cui cessa la causa che ha dato luogo al vizio (recupero della capacità legale, cessazione della violenza etc.).

Ad essere imprescrittibile è invece l’eccezione di annullamento. Può capitare di essere chiamati in giudizio per l’esecuzione di un contratto anche dopo che siano decorsi i cinque anni previsti dall’art. 1442 c.c. In questi casi in cui sono convenuto potrò sempre far valere i vizi di cui sopra sollevando la relativa eccezione.

L’annullabilità, inoltre, non può essere rilevata d’ufficio dal giudice, che pronuncerà poi una sentenza non meramente dichiarativa ma costitutiva, in quanto il suo intervento è finalizzato a modificare la situazione giuridica esistente (e non solo ad accertarla).

Una volta che viene pronunciata sentenza di annullamento, questa agisce retroattivamente. Le parti saranno tenute a ripetere le prestazioni eventualmente eseguite, con alcune precisazioni. Nel caso di contraente incapace, anzitutto, questo è tenuto alla ripetizione della prestazione solo nei limiti in cui ne abbia tratto vantaggio (art. 1443 c.c.). Inoltre sono fatti salvi i diritti acquisiti a titolo oneroso e in buona fede dai terzi, a meno che l’annullamento non dipenda dall’incapacità del contraente. Se da un lato, infatti, il nostro ordimento cerca di tutelare il principio di affidamento, dall’altro prevale la più accentuata tutela dell’incapace.

Sempre in tema di opponibilità, in materia di diritti reali immobiliari si ricorda la necessità di trascrizione della domanda di annullamento per rendere opponibile la sentenza a chiunque abbia acquistato diritti sul bene in data successiva alla trascrizione.

 

La convalida (art. 1444 c.c.)

A differenza del negozio nullo, quello annullabile può essere sanato ricorrendo all’istituto della convalida ex art. 1444 c.c. Attraverso tale negozio (che può avere forma espressa o tacita) la parte che potrebbe far valere il vizio in sede giudiziale si preclude la possibilità di farlo. Così facendo l’ordinamento tutela la possibilità di disporre del proprio potere di impugnazione. Ovviamente, affinché ciò sia possibile, il vizio che invalidava il contratto deve essere venuto meno.

Anche in questo caso è necessario fare un po’ di chiarezza terminologica. In particolare, non bisogna confondere la convalida con la ratifica, che ha la diversa funzione di approvare e fare proprio un negozio compiuto dal proprio rappresentante senza potere. Altro istituto diverso, ma che comunque ha l’effetto di sanare il contratto annullabile, è la rettifica (art. 1432 c.c.), ossia l’offerta di eseguire il contratto viziato da errore secondo il contenuto e le modalità con cui si intendeva concludere il negozio.