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Rescissione e Risoluzione nel contratto.

Rescissione e Risoluzione nel contratto.

RESCISSIONE

La libertà negoziale riconosciuta alle parti del contratto rimette a loro la possibilità di stabilire il valore della prestazione e della controprestazione. In questo modo la loro valutazione potrà variare a seconda anche delle esigenze dei singoli. Il nostro ordinamento ha tuttavia messo degli argini a tale libertà, prevedendo dei casi in cui la sproporzione fra le prestazioni contrattuali e i motivi che l’hanno determinata sono tali da richiedere una tutela per la parte che ha subìto le condizioni svantaggiose del negozio. L’istituto predisposto al fine di rimuovere gli effetti prodotti da tali contratti è l’azione di rescissione. La sua ricostruzione teorica è risultata da sempre travagliata e solamente la vicinanza (sia codicistica che ontologica) con l’annullamento hanno spinto la dottrina a classificarla come invalidità, che – come vedremo – trova la sua ragion d’essere sia sotto il profilo oggettivo che soggettivo. A differenza dell’annullamento, non vi può essere convalida del negozio viziato, ma l’elemento oggettivo può essere sanato solamente prestando il necessario supplemento che riequilibri la sproporzione fra le prestazioni. Una volta esperita l’azione (che, di regola, si prescrive in un anno dalla conclusione del contratto) e che la rescissione ha luogo, vengono rimossi gli effetti del contratto ma non retroattivamente, tanto che vengono fatti salvi i diritti acquisiti dai terzi.

Per capire meglio la natura dell’istituto, però, bisogna passare in disamina le due figure di rescissione tipizzate dal nostro ordinamento, ossia quella attivabile perché il contratto è stato concluso in istato di pericolo (art. 1447 c.c.) e quella per lesione (art. 1448 c.c.).

Rescissione del contratto concluso in istato di pericolo (art. 1447 c.c.)

 Il primo tipo di rescissione previsto dal nostro ordinamento è quello del contratto concluso in istato di pericolo ex art. 1447 c.c.

Il primo presupposto per poter esperirlo è ovviamente lo stato di pericolo in cui uno dei contraenti o un’altra persona si trova (non è configurabile quando invece ad essere in pericolo siano delle cose). Questo viene spesso equiparato allo stato di necessità ex artt. 54 c.p. e 2045 c.p., risolvendosi in una situazione di pericolo attuale di un grave danno alla persona. Tale situazione non deve essere stata necessariamente causata dalla controparte, da terzi o da cause di forza maggiore, potendo essere dovuta anche alla condotta stessa (volontaria o colpevole) del soggetto in pericolo. Ciò che rileva – e che costituisce il secondo presupposto della rescissione ex art. 1447 c.c. – è la conoscenza dello stato di pericolo in capo alla controparte, il quale approfitta della situazione in cui si trova la persona in pericolo per imporre condizioni inique al negozio. L’iniquità delle condizioni contrattuali, infatti, costituisce l’ultimo presupposto per poter agire in rescissione. Se dal pericolo e dalla sua conoscenza non derivasse alcun pregiudizio contrattuale, l’istituto in questione non potrebbe essere attivato. Allo stesso modo, se lo stato di pericolo avesse influito non sulle condizioni contrattuali ma direttamente sulla sua stipula, sarebbe possibile ricorrere (di fronte ai giusti presupposti) direttamente all’annullamento.

Rescissione per lesione (art. 1448 c.c.)

Anche la rescissione per lesione ex art. 1448 c.c. serve a rimediare a situazioni di sproporzione contrattuale abnorme fra i contraenti. In questo caso, tuttavia, i presupposti per l’attivazione dell’istituto sono differenti.

Anzitutto, laddove dall’art. 1447 c.c. era richiesta l’iniquità delle condizioni contrattuali, in questo caso di parla di lesione. Questa è una sproporzione fra le prestazione contrattuali, che viene esattamente quantificata: questa, infatti, deve essere ultra dimidium, vale a dire che la prestazione in oggetto deve avere valore doppio rispetto alla controprestazione. Tale sproporzione, tuttavia, deve durare sino al momento in cui la domanda è proposta. Ovviamente questo criterio non può essere applicato ai contratti aleatori, in cui le prestazioni hanno un valore necessariamente squilibrato (semmai si potrebbe discutere della proporzione fra il premio rispetto e la copertura garantita, questo sì valutabile).

Anche in questo caso, tuttavia, non è sufficiente la sussistenza del disvalore fra le prestazioni. Come detto, l’autonomia negoziale permette anche di dare valutazioni fuori mercato ad un determinato bene per le più disparate e valide ragioni. Ciononostante questo non deve derivare dalle difficoltà di una delle parti. Se l’art. 1447 c.c. richiedeva lo stato di pericolo, in questo caso presupposto ulteriore e necessario è lo stato di bisogno. Questo ultimo si concretizza in una situazione di difficoltà economica, a prescindere che sia transitoria o meno, che rileva non tanto per la sua portata (non c’è bisogno, infatti, che sia un’indigenza assoluta) ma per essere il fattore che ha inciso sulla libertà negoziale della parte e che l’ha spinta ad accettare la lesione, ossia la sproporzione fra prestazioni.

Anche in questo caso è necessaria la consapevolezza dello stato di bisogno della controparte, che si è avvantaggiato (anche tacitamente) della situazione di difficoltà dell’altro contraente.

RISOLUZIONE DEL CONTRATTO

La risoluzione del contratto è lo scioglimento del vincolo contrattuale per anomalie funzionali, con il quale è possibile far cessare gli effetti che il negozio ha prodotto. In questo caso, la varietà e la diversità dei differenti strumenti risolutivi impone di analizzare sin da subito i diversi tipi di risoluzione previsti dal nostro ordinamento.

La risoluzione per inadempimento (art. 1453 c.c.)

La risoluzione per inadempimento può essere applicata solamente ai contratti a prestazioni corrispettive. A fronte di una parte inadempiente, l’ordinamento deve fornire a quella adempiente gli strumenti necessari per tutelarsi dall’inadempimento di controparte. In questi casi, dunque, il contraente diligente ha due possibilità: insistere per l’adempimento della prestazione a lui dovuta, richiedendo la c.d. manutenzione del contratto (la condanna per la controparte ad adempiere la propria prestazione) oppure esercitare il proprio diritto – ovviamente potestativo – di risoluzione del contratto. In entrambi i casi si potrà chiedere anche il risarcimento del danno, che sarà però calcolato diversamente. Nell’ipotesi di azione di adempimento, infatti, il risarcimento va a coprire il ritardo nella prestazione e, soprattutto, si aggiunge alla prestazione che si ottiene dalla controparte. Nel secondo caso, invece, il risarcimento andrà a sostituire integralmente la prestazione e sarà quantificato in maniera differente.

Non è solo questa la differenza fra le due azioni, ma è anche diverso rapporto che intercorre fra le due in caso di attivazione dell’una o dell’altra. Nel caso in cui si chieda l’adempimento, nulla vieta di cambiare idea in un secondo momento e chiedere la risoluzione del contratto. Al contrario, quando si procede direttamente per quest’ultima, non si potrà tornare indietro e chiedere l’adempimento della prestazione. Questo perché, nel momento in cui viene richiesta la risoluzione, implicitamente il contraente dichiara di non avere più interesse nell’ottenere la prestazione e perciò la parte inadempiente può ritenersi dispensata dal provvedere a quanto necessario per il suo adempimento. Per questo stesso motivo, dal momento della domanda di risoluzione la parte adempiente potrà legittimamente rifiutare l’adempimento tardivo della prestazione originariamente dovuta. Inoltre, nonostante l’art. 1453, co. 3, c.c. faccia riferimento alla proposizione della domanda di risoluzione come momento dal quale poter legittimamente rifiutare la prestazione originariamente dovuta, la giurisprudenza è ormai concorde nel ritenere che questa possa essere legittimamente rifiutata anche prima, a condizione che l’inadempimento sia di una gravità tale da giustificare la risoluzione.

Proprio sulla gravità dell’adempimento è necessario aggiungere qualche parola, dal momento che l’art. 1455 c.c. prevede espressamente che il contratto si possa risolvere solamente se l’inadempimento sia di non scarsa importanza. Se così non fosse, non sarebbe giustificato l’intervento del giudice, giustificato solo in casi di una certa gravità dell’inadempimento.

Con la proposizione della domanda al giudice, infatti, si richieda la pronuncia di una sentenza costitutiva, un mutamento della situazione giuridica che deve avere una valida giustificazione giuridica. L’attore sarà tenuto a dimostrare l’esistenza del proprio diritto di credito (sia che chieda l’adempimento che chieda la risoluzione), mentre ricadrà sul debitore l’onere di provare l’esistenza di un fatto estintivo della pretesa del creditore (come già chiarito dalle Sezioni Unite almeno dalla sentenza 13533/2001), che potrebbe essere tanto la prova di aver già adempiuto alla propria prestazione quanto, ad esempio, la rinuncia della controparte e il venir meno delle condizioni di adempimento.

È bene precisare che lo scioglimento del contratto produce effetti retroattivamente, pertanto le prestazioni già eseguite dovranno essere restituite. Fanno eccezioni a questa regola i contratti ad esecuzione periodica o continuata, il cui scioglimento produce effetti ex nunc. Inoltre, dal momento che l’art. 1458 c.c. fa riferimento alla retroattività degli effetti dello scioglimento relativamente alle sole parti del contratto, devono ritenersi salvi i diritti legittimamente acquistati dai terzi, con particolare riferimento ai contratti traslativi. Tale regola viene ovviamente meno nel caso in cui la domanda di risoluzione o di adempimento, relativamente ad un bene immobile, sia stata trascritta.

Risoluzione di diritto

Vi sono dei casi, espressamente previsti dalla legge, in cui la risoluzione opera di diritto senza che si renda necessaria la pronuncia del giudice.

La prima di queste fattispecie è la diffida ad adempiere (art. 1454 c.c.). In forza di questo istituto, la parte non inadempiente può inviare una dichiarazione scritta – la diffida ad adempiere – fissando un termine (di norma non inferiore ai 15 giorni, ex art. 1454, co. 2, c.c.) decorso il quale, se la controparte non adempierà la prestazione, il contratto si riterrà risolto. Non è da escludere che la parte non inadempiente insista per ottenere un’ulteriore diffida ad adempiere dopo la prima; in questo caso il termine per l’adempimento decorrerà dal momento dell’ultima diffida inviata alla controparte. Nonostante la risoluzione operi di diritto, ciò non esclude che vi siano controversia in merito alla risoluzione stessa. Nel dirimere le controversie inerenti questi casi il giudice, a differenza di quanto avviene per la risoluzione ex art. 1453 c.c., pronuncerà una sentenza di mero accertamento.

Un altro tipo di risoluzione di diritto è quello previsto dall’art. 1456 c.c., ossia la clausola risolutiva espressa. In questo caso sono direttamente le parti a stabilire nel contratto che, in caso di inadempimento o anche di non corretto adempimento, il contratto debba ritenersi risolto di diritto. Sono dunque le parti che stabiliscono ex ante le condizioni per la risoluzione; in questo modo l’autonomia negoziale supera e sostituisce il giudizio circa la gravità dell’inadempimento che opera per la risoluzione ex art. 1453 c.c. Anche in questo caso sarà possibile sollevare questioni sulla clausola di fronte al giudice, sia per l’effettiva sussistenza dell’inadempimento che per la sua legittimità, e, come nel caso precedente, la sua sarà una pronuncia di mero accertamento.

Da ultimo si segnala l’istituto del termine essenziale ex art. 1457 c.c., vale a dire quel termine decorso il quale la prestazione diventa inutile ed il contratto deve ritenersi risolto. Ciò può avvenire sia per motivi oggettivi, ossia perché, per la natura stessa della prestazione, un adempimento dopo detto termine risulti inutile, sia per motivi soggettivi, ossia quando sia interesse del contraente ottenere la prestazione entro detto termine.

Risoluzione per impossibilità sopravvenuta (art. 1463 c.c.)

L’art. 1256 c.c. disciplina l’impossibilità sopravvenuta alla prestazione, che estingue l’obbligazione, liberando la parte tenuta all’adempimento. Tale evenienza è disciplinata anche nei contratti a prestazioni corrispettive, casistica nella quale la legge (art. 1463 c.c.) prevede la possibilità di risoluzione nei casi di impossibilità sopravvenuta. In materia, si ripete quanto detto relativamente all’art. 1256 c.c., con particolare riferimento alla configurazione dell’impossibilità sopravvenuta. Non è sufficiente una semplice maggiore difficoltà della prestazione o una sua maggiore onerosità affinché si configuri tale istituto; allo stesso modo, non rientrano in tale categoria solamente i tipi di impossibilità sia assoluta (materiale o giuridica) oppure oggettiva. Il requisito richiesto affinché si abbia impossibilità sopravvenuta è che la situazione impeditiva sia tale da non poter essere superata con lo sforzo diligente cui il debitore è tenuto il cui debitore è tenuto. Si dovrà tener conto del tipo di obbligazione, oltre che delle qualità e delle condizioni economiche del debitore, che in alcun modo deve essere causa dell’impossibilità (che è tenuto ad evitare).

Con particolare riferimento alla risoluzione, è bene precisare che un’impossibilità parziale non farà venir meno l’intera controprestazione, ma comporterà una sua riduzione nella misura ritenuta congrua in relazione al corrispettivo equivalente rimasto possibile (art. 1464 c.c.). Ciononostante, in ossequio ai princìpi generali, proprio l’art. 1464 c.c. prevede la possibilità di recedere anche in caso di impossibilità solo parziale nel momento in cui la parte non abbia un interesse apprezzabile all’adempimento parziale.

Nei contratti traslativi, inoltre, assume rilievo il momento in cui avviene il passaggio di proprietà per valutare se l’impossibilità sopravvenuta faccia venir meno il diritto alla controprestazione. In un sistema come quello italiano, che si basa sul principio consensualistico ex art. 1376 c.c., è proprio dal momento del consenso che si trasferisce il diritto alla proprietà e, contestualmente, si trasferisce anche il rischio derivante da un’impossibilità sopravvenuta, che non farà venir meno il diritto alla controprestazione dovuta. È bene precisare che tali regole subiscono delle forti mitigazione in materia consumeristica, in virtù della diversa forza delle parti contrattuali, così come previsto dal Codice del consumo (d.lgs. 206/2005), motivo per il quale per un qualunque acquisto su internet effettuato come semplice consumatore i rischi vengono ripartiti in maniera diversa (come si vedrà nella relativa sezione). Inoltre, se la cosa perisce perché il venditore viene meno all’obbligazione di consegnare il bene venduto, tale negligenza sarà imputata al venditore stesso, che dovrà rispondere per l’inadempimento dell’obbligazione di consegna, salvo che la cosa non perisca per caso fortuito, in ossequio al principio generale sancito dall’art. 1218 c.c. Tali regole subiscono una deroga nel caso in cui la cosa perisca in pendenza di condizione sospensiva, facendo ricadere il rischio del perimento sull’alienante.

Risoluzione per eccessiva onerosità (art. 1467 c.c.)

Può accadere che fra il momento della stipulazione del contratto e la sua esecuzione intercorra un lasso di tempo durante il quale si verifichino eventi tali da modificare la valutazione delle prestazioni contrattuali, con il rischio di veder compromesso l’equilibrio contrattuale. Nel caso in cui ciò avvenga per fatti sopravvenuti straordinari ed imprevedibili, il legislatore ha previsto lo strumento della risoluzione per eccessiva onerosità ex art. 1467 c.c., che individua i presupposti affinché si possa ricorrere a tale istituto. Anzitutto, il primo requisito è proprio l’intercorrere di un lasso di tempo fra stipulazione ed esecuzione del contratto. Poi che vi sia un’eccessiva onerosità effettiva, che comporti uno squilibrio contrattuale fra le prestazione, precisando che tale situazione deve essere valutata non tenendo conto delle condizioni particolari delle parti, ma guardando esclusivamente al valore intrinseco delle prestazioni. Come detto in materia di contratto, tale valutazione dovrà essere effettuata valutando la causa in concreto del negozio, spingendo il giudice ad operare una vera e propria valutazione di merito circa l’equilibrio contrattuale, possibilità in precedenza negata dall’interpretazione economico-sociale della causa del contratto.

  Da ultimo, l’eccessiva onerosità deve dipendere da avvenimenti straordinari e imprevedibili. È interessante notare come, a livello manualistico, viene indicato come evento straordinario lo scoppio di una guerra. Visto il momento storico e le sue conseguenze economiche, sarà interessante vedere la risposta concreta della giurisprudenza in materia di eccessiva onerosità invocate a seguito delle complicazioni economiche dovute (anche) ai conflitti attualmente in essere.

Si deve aggiungere l’ovvia impossibilità di applicare tale istituto ai contratti aleatori, nei quali non sussiste un equilibrio predefinito delle prestazioni, sebbene si debba sottolineare come la giurisprudenza tenga a sottolineare come debba esserci proporzionalità fra premio e rischio coperto, richiedendo quindi un equilibrio contrattuale, per quanto diverso da quello comunemente inteso.

In chiusura, si ricorda come la risoluzione possa essere evitata (come in materia di rescissione) offrendo una modifica equa delle condizioni contrattuali.